Contro i danni della propaganda queer nelle scuole

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foto ADL

Noi docenti non possiamo lasciare che i consigli di Istituto scolastici approvino la proposta di attuare la cosiddetta «carriera alias» per gli studenti che si percepiscano e che si definiscano transgender.

Non vi è infatti condivisione alcuna da parte dei collegi dei docenti e delle componenti genitori, così che le delibere vengono strappate ai consigli di Istituto in violazione palese dell’alleanza tra scuola e famiglia, che prevede il pieno rispetto del patto di corresponsabilità educativa.

Ora, per chi non lo sapesse o non lo ricordasse la cosiddetta «carriera alias» è un protocollo, al momento ancora non autorizzato da nessuno e da nessuna circolare, su cui nemmeno si è ancora pronunciato alcun ministro dell’Istruzione, su cui non vi sono normative scolastiche attuative, che di fatto consente agli studenti che si percepiscano e che si definiscano transgender di vedere modificato sul registro elettronico il nome di battesimo con un nome di elezione, nonché di fruire di bagni e di spogliatoi cosiddetti transgender.

Si tratta di iniziative sovente avviate sulla scorta di richieste di collettivi studenteschi non specificamente legati a singoli studenti che ne abbiano fatta richiesta esplicita, così che tutto sembra rispondere soprattutto alla voglia di alcuni gruppi di piantare una bandierina segnaletica nel territorio scolastico in nome di una scuola più “inclusiva”.

Ma la scuola è seriamente inclusiva non certo perché applica linee educative di natura dubbia: lo è se sa ascoltare l’insieme e l’intero della comunità educante, cioè genitori, docenti, organi collegiali tutti, e anzitutto se sa rispondere a princìpi pedagogici riconosciuti e condivisi.

Il caso recente scoppiato nel Liceo Cavour di Roma ha posto in evidenza la responsabilità dei docenti nell’applicazione di protocolli lontani dalle normative scolastiche vigenti, anticipando sentenze che solo i tribunali ordinari possono emettere. Un docente non può infatti manomettere un registro elettronico rispetto a quanto, per esempio, codificato in un corrispondente codice fiscale.

Era già accaduto nel Liceo di Brera a Milano, dove il dirigente aveva dichiarato pubblicamente di non riuscire a effettuare la modifica perché il registro elettronico non riconosceva il codice fiscale di una femmina che portasse d’improvviso un nome di maschio, operando così attraverso uno stratagemma informatico. Ovvero un abuso, una forzatura di cui peraltro i docenti debbono rispondere alle autorità, essendo ufficiali pubblici chiamati al rispetto delle regole.

Altro problema di peso specifico non minore per un docente è lo scrutinio, durante il quale bisognerebbe redigere un verbale che dichiara il falso. L’autonomia di un docente nella scuola, che di per sé è sacrosanta, non può diventare la maschera dell’arbitrio.

Fondamentale è anche valutare le ricadute che tutto questo può provocare nel contesto educativo. Perché se da domani Maria vorrà chiamarsi Mario, questo avrà un impatto psico-pedagogico enorme sulla classe intera.

Un docente deve sapere che il nostro ordinamento giuridico disciplina sì il cosiddetto «cambio di sesso» e tutto ciò che ne consegue in termini di modifiche anagrafiche, ma il periodo della fluidità di genere invece non ha una disciplina certa, quindi è possibile applicare  princìpi ancora non normati e non approvati sul piano legislativo. Il 28 ottobre noi dell’associazione «Non si tocca la famiglia» abbiamo rilanciato per l’Italia il manifesto-appello promosso in Francia e in Belgio da professionisti e specialisti contro la propaganda gender nelle scuole e sui social media visti i danni che provoca in tanti, tantissimi bambini e ragazzi. È infatti giunto il momento di dire basta a questi mali conclamati ed evidenti.
Giusy D’amico

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