Un’intervista ad Antonio Pennisi membro del corpo della Polizia Postale e delle Comunicazioni – Compartimento di Catania.
Da quanti anni svolge il suo servizio in materia di contrasto alla pedopornografia online?Svolgo questo tipo di lavoro da circa 4 anni.
È genitore? Sì, ho due figlie.
Le è capitato di gestire indagini di sexting? Sì, purtroppo mi trovo molto spesso a gestire indagini che riguardano il sexting e la conseguente diffusione di immagini di minorenni a terzi.
Se ne ricorda una in particolare? Mi ricordo chiaramente un caso, esemplificativo di tanti altri, in cui una ragazzina 14enne conosce un ragazzo un po’ più grande di lei, che non frequenta la sua stessa scuola. I due iniziano a sentirsi e alla fine si “fidanzano virtualmente”. In seguito, il ragazzino chiede che gli invii delle foto provocanti, lei accetta di inviarne qualcuna senza vestiti. Dopo qualche tempo, si rende conto della gravità della situazione e interrompe l’invio delle immagini. Il ragazzo decide, anche a mo’ di vanto, di diffondere a terzi queste foto. La condizione di disagio della ragazza viene notata dai suoi genitori, i quali, compresa la situazione, decidono di sporgere denuncia alla Polizia Postale.
Quali sono state le difficoltà incontrate nel raccogliere la testimonianza della vittima? È noto come la vittima di fenomeni come quello del cyberbullismo provi sentimenti di sconforto e di estrema vergogna, che possono portare ad un progressivo ritiro dalle relazioni sociali; tale isolamento si manifesta sia con il gruppo dei pari, sia all’interno del nucleo familiare e costituisce sicuramente un ostacolo anche nel corso della testimonianza. È molto facile che la vittima sperimenti il senso di colpa; penso per esempio a quei casi in cui la ragazzina si fida del partner e gli invia di sua spontanea iniziativa foto intime e provocanti.
I genitori erano presenti? No, solitamente i genitori non sono presenti. Inoltre, tutte le testimonianze sono videoregistrate.
Le sommarie informazioni testimoniali sono state raccolte con l’aiuto di un esperto di psicologia? Certamente, dato l’argomento delicato, è indispensabile che in sede di testimonianza sia sempre presente un esperto nell’ambito dell’ascolto minorile. Grazie al professionista, uno psicologo o un neuropsichiatra infantile, riusciamo a relazionarci al ragazzo/alla ragazza, comprendendo quali sono gli aspetti che possono essere approfonditi ed evitando assolutamente atteggiamenti di inquisizione. Con le psicologhe, che ci collaborano, si è instaurata una collaborazione intensa; basta uno sguardo, per capire come instaurare il dialogo col minore, ovvero se è il caso di insistere o se invece è il caso di moderare le domande.
Chi si è occupato dei genitori se non presenti all’ascolto? Come dicevo, l’interrogatorio viene effettuato in una stanza in cui sono presenti: il minore, i funzionari di Polizia, i vari esperti, ma non i genitori. Tra le altre cose, ciò permette al ragazzo di esprimersi liberamente, riguardo situazioni intime e personali, a cui sono spesso connessi sentimenti di imbarazzo e vergogna, che aumenterebbero alla presenza dei genitori. Bisogna dire che generalmente i genitori delle vittime sanno che cosa hanno subito i loro figli, dal momento che nella quasi totalità dei casi sono loro stessi a sporgere denuncia dopo esserne venuti a conoscenza. Tuttavia, quando viene comunicato loro che non possono partecipare all’interrogatorio, si mostrano molto preoccupati all’idea di abbandonare il figlio e di non poterlo aiutare a gestire questo momento nuovo e complicato. Dunque, è importante fornire anche ai genitori un qualche tipo di sostegno. Solitamente, mi occupo direttamente io di questo aspetto e cerco di rassicurarli e aiutarli nel miglior modo possibile.
Ha partecipato alla perquisizione dell’autore di reato? E quali reazioni ha osservato in lui? Credo che nel pensiero comune sia facile immaginarsi il disagio provato dalle vittime, ma un po’ più difficile sia comprendere le reazioni e i pensieri del minore autore di reato. Sin dai primi giorni del mio lavoro, mi sono reso conto che, di frequente, il minore che delinque sperimenta sentimenti di vergogna e imbarazzo, quando è messo di fronte a ciò che ha fatto. Molti di loro non sono assolutamente consapevoli del reato che hanno commesso e della possibile condanna che possono subire, fino al momento in cui interveniamo: per loro rientra ancora tutto nella dimensione del gioco.
Che reazioni ha osservato nella famiglia dell’autore di reato? Le famiglie tendono a reagire in modo estremamente diverso fra loro, in base al rapporto che hanno con il figlio/la figlia, all’età e al background socio-culturale. In base alla mia esperienza, credo che il tipo di estrazione sociale incida molto sulla percezione che i genitori hanno del reato commesso dal figlio minorenne. Purtroppo, mi sento anche di affermare che spesso le mamme e i papà degli autori di reato non si rendono pienamente conto della gravità del fatto, mostrandosi invece inclini a definirlo come “uno scherzo fra ragazzi”. In questi casi, invito questi genitori ad invertire le parti e a mettersi nei panni della vittima e della famiglia della vittima.
Quali sono state le difficoltà incontrate nel gestire le loro reazioni? Le difficoltà maggiori riguardano il riuscire a far capire ai genitori dell’autore di reato che quello che il figlio ha commesso, consiste in un reato penale vero e proprio.
Qual è l’approccio del vostro Dipartimento per affrontare casi di questo tipo? Mi permetta di usare una definizione a me cara, quando dico che l’intervento in queste situazioni deve configurarsi in una vera propria “Azione sociale”. Credo che il nostro compito fondamentale sia quello di garantire alla vittima e all’autore di reato una rete di tutela a 360°, in grado di farsi carico dei minori attivando più Servizi e Agenzie sul territorio.
Cosa ne pensa di questo tipo di fenomeno come padre/persona? Cerco di essere un padre attento: anche grazie al mio lavoro, so che questi fenomeni esistono e sono altrettanto consapevole del fatto che sono molto diffusi e che non è raro che coinvolgano adolescenti come tutti gli altri, tra i quali potrebbero esserci i nostri figli. Scattarsi selfie “sessuali” è una moda che dilaga fra i giovani e sfocia spesso nell’invio di queste immagini/video ad amici e partner. Mi sono fatto l’idea che molti genitori, nel momento in cui vengono a conoscenza dell’abitudine del figlio di praticare “sexting”, rimangano esterrefatti più che altro perché non si capacitano che il loro bambino stia crescendo e stia acquisendo una certa maturità sessuale, aspetto che spesso sembra preferiscano negare.
E come poliziotto? In questi quattro anni di Servizio presso la Polizia Postale e delle Comunicazioni, ho avuto modo di poter entrare in punta di piedi nel particolare mondo degli adolescenti e ho cercato di immedesimarmi in loro, di comprendere le loro difficoltà e le loro paure. Credo fermamente che solo ponendoci in un’ottica di comprensione ed empatia, abbandonando l’atteggiamento giudicante e criticante tipico del mondo adulto, possiamo fare chiarezza su questo fenomeno. Non è facile: per questo definisco il mio lavoro come “un’esperienza formativa” che non si esaurisce mai.
Se dovesse immaginare un momento formativo su questo fenomeno, quali sono gli aspetti che vorrebbe approfondire? Da addetto ai lavori, sono profondamente convinto che la chiave stia nella prevenzione. È cruciale che i nostri figli vengano sensibilizzati sull’utilizzo di internet e delle nuove tecnologie; deve passare l’idea che internet è un luogo fantastico e pieno di opportunità, ma che allo stesso tempo può nascondere insidie e pericoli. Ugualmente, dovremmo formare i nostri ragazzi passando il messaggio che le cose personali, quando postate in internet, perdono la dimensione del privato e diventano di dominio pubblico. Evitiamo però il proibizionismo: sappiamo bene che impedire qualcosa ad un adolescente equivale a stimolare la sua ricerca del brivido e dell’andare controcorrente.
Per risolvere questo fenomeno è necessario… Progettare un’azione più ampia, che consista in un reale impegno di ognuno di noi, a partire dalla società civile, alla scuola e alle Istituzioni. Dalla preziosa testimonianza del Dott. Pennisi, esperto del settore, emergono temi cruciali come: la necessità di un approccio integrato e multi-professionale, le modalità per relazionarsi con le vittime e con la famiglia di esse. Ancora, la visione della devianza giovanile come un’estrema sofferenza e un disagio che vanno compresi, ma prima di tutto prevenuti con “azioni sociali” di sensibilizzazione e formazione. A tal proposito riportiamo di seguito i requisiti minimi per il lavoro degli operatori con le vittime minorenni di abuso sessuale online, racchiusi nel “Vademecum per le Forze di Polizia” (2014, Ministero della Giustizia e dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza):
- Formazione integrata: Tutti i professionisti devono condividere un linguaggio e conoscenze comuni, per affrontare il fenomeno e facilitare lo scambio di informazioni e la collaborazione fra le differenti aree di intervento che operano nelle singole situazioni;
- . Conoscenza della normativa relativa al caso: Tutti gli attori coinvolti devono avere una conoscenza di base della normativa esistente così da riconoscere il fenomeno, e migliorarne la rilevazione/segnalazione e la gestione nella rete di protezione;
- Conoscenza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: Tutti gli attori coinvolti nel percorso devono conoscere gli strumenti tecnologici adoperati dalle persone di minore età, i bisogni e le motivazioni che sottendono al loro utilizzo e i rischi associati;
- Conoscenza degli aspetti clinici o psicosociali del fenomeno: Tutti gli attori coinvolti nel percorso devono avere una conoscenza di base delle caratteristiche e delle implicazioni dell’abuso sessuale online, ovvero le possibili conseguenze psicologiche derivanti dall’esposizione diretta al- l’evento traumatico, al fine di assumere un approccio in grado di ridurre al minimo il rischio di rivittimizzazione;
- Conoscenza del contesto: Tutti i professionisti coinvolti devono conoscere i vari contesti all’interno dei quali si opera (giudiziario, sociale, psicologico, educativo), nel rispetto delle reciproche competenze;
- Lavoro integrato multidisciplinare: È necessaria una completa collaborazione e integrazione tra servizi e tra professionisti, sia sul piano dell’intervento nei singoli casi, sia in merito all’interazione istituzionale, utilizzando le reti presenti sul territorio e le forme di collaborazione già individuate (linee guida, protocolli, ecc.);
- Tempestività del processo di intervento: La presa in carico psicosociale della vittima e della sua famiglia, se protettiva, va attivata il più tempestivamente possibile, per fornire le più opportune forme di supporto sia nella fase di scoperta dell’abuso, che rappresenta un momento di crisi per la famiglia, che nel successivo percorso giudiziario. Nel concreto, significa attuare momenti di confronto tra le forze di polizia, Autorità Giudiziaria, Istituzione scolastica e Servizi Socio-sanitari Territoriali preposti alla tutela dei minori, con una frequenza che verrà stabilita caso per caso, sviluppando momenti di coordinamento e cooperazione, per stabilire insieme percorsi, tempi e modalità di azione, durante ogni fase dell’intervento (indagini, percorso giudiziario, ecc.). In generale quindi, soltanto una presa in carico integrata da parte di tutti i servizi del territorio assicura la protezione del minore e l’efficacia degli interventi in suo favore.
“Sexting: una ricerca sul fenomeno, dal punto di vista degli adolescenti” di Francesca Scandroglio.