Autobiografia di Padre Mariano da Torino

foto concessa dal sito ufficiale – Padri Cappuccini

Al lettore di queste pagine potrà anche non interessare, ma chi le ha scritte una dichiarazione preliminare deve pur farla. Io leggo molto, ma scrivo pochissimo. Mai ho scritto un mio diario. Leggo però volentieri, più che i libri di dottrina o romanzi celebri, pagine autobiografiche, anche se di scarso valore letterario.
Tali sono le pagine che ho scritto. Spero che giovino a chi ama la testimonianza di un vivente. Più che per aderire ad un fraterno invito, ho scritto per testimoniare ancora una volta – non lo farò mai abbastanza – la mia riconoscenza alla Vergine Immacolata per una grazia, assolutamente immeritata, che Essa è riuscita ad ottenere per me da Dio, grazia che forma la gioia della mia esistenza: la vocazione francescana e sacerdotale.

Torino, 22 maggio 1906

Sono nato il 22 maggio 1906. Ho quindi, mentre scrivo, 48 anni (sarebbe più esatto dire che non li ho più). Quando ne avevo 34, a chi mi avesse detto: “Un giorno non lontano tu sarai sacerdote ” io avrei sorriso o avrei scrollato il capo. “No, non lo sarò mai”. Così risposi, con un certo dispetto, a 20 anni ad un caro amico, sacerdote, che me l’aveva… annunciato.
Sacerdote? Lo rispettavo, ma non vi sentivo alcuna attrattiva di vita per me. Che cosa è avvenuto nella mia anima perché io desiderassi un giorno, fortemente, decisamente, con la vita religiosa, quella sacerdotale? Se il Signore, come spero dalla Sua misericordia, mi accoglierà un giorno in paradiso, sono certo che sarà la Vergine Immacolata a colmare di delizioso stupore la mia anima, facendole vedere per quali vie Essa l’ha condotta, costretta anzi a passare, prima di vedere chiara la volontà di Dio.
Sono nato a Torino, la città del SS. Sacramento e della Consolata, di don Bosco e del Cottolengo. Sono nato in una famiglia cristiana e praticante, ma ho dovuto costruire faticosamente, attraverso miserie mie e misericordie incessanti del Signore, il mio mondo spirituale.

Gli anni della scuola

Ho frequentato scuole statali, dalle elementari (nelle quali mi buscai anche una sospensione dalle lezioni per vari giorni, perché coinvolto in una fitta sassaiola… amichevole, proprio davanti all’edificio scolastico) al ginnasio-liceo, all’Università. Ho vissuto cosi per sedici anni nell’atmosfera della scuola pubblica italiana di trent’anni fa: atmosfera non del tutto cristiana. Quale sia la scuola d’oggi, non so. Allora, accanto a compagni studiosi e sani, ebbi compagni poltroni e bacati, moralmente corrotti e corruttori già dai banchi del ginnasio; con insegnanti esemplari e cristiani, altri scadenti e areligiosi, per non dire irreligiosi, né mancavano i massoni che con evidente compiacenza – occasione data vel quaesita – punzecchiavano il deposito della nostra fede, già cosi debole e scarso in questi tempi, nei quali la scuola italiana non dava (dopo le elementari) alcuna istruzione religiosa ai suoi alunni. Non mancarono quindi accese discussioni col socratico professore di filosofia sui miracoli di Lourdes (egli voleva che a Lourdes un arto mancante fosse ridonato istantaneamente e, allora, avrebbe creduto.) e circa la “pretesa” elevazione della donna operata dal Cristianesimo (la negava perché c’era e c’è la piaga della prostituzione).
Facevano del bene quelle discussioni? Ridestavano qualche scintilla di fede in chi l’aveva quasi spenta? Non so; ma ricordo bene questo: bastava che uno di noi si ergesse in aula a defensor fidei per rimbeccare garbatamente l’insegnante, perché ottenesse ipso facto anche dai più… lontani e dai più dotati di rispetto umano, il favore e l’appoggio: pur di contraddire un insegnante si era tutti d’accordo.

Il “Circolo” e l’Università

Erano gli anni di Trento e Trieste, di Fiume, dei dannunziani, degli squadristi e della marcia su Roma: il nome che più risuonava nelle aule, in mezzo ad applausi senza fine, non era certo quello di Dio, ma quello della patria. (Ho sempre pensato che l’unico modo per non far amare la patria è quello di parlarne sempre). Prevaleva (o prevale ancora?) una sacra aura di mentalità liberale, che si disinteressava praticamente della vera formazione di un giovane: quella interiore Molta istruzione, pochissima educazione. Come in quegli anni io abbia conservato, anzi abbia reso più viva la mia fede, è dono dell’Immacolata, perché fin da allora ebbi la fortuna di frequentare un cenacolo di vita cristiana giovanile, il Circolo dell’Immacolata, aperto dai Padri Gesuiti di Torino per giovani studenti delle scuole pubbliche e diretto dall’infaticabile P. Pesso, oggi di veneranda età. Allora non potevo certo apprezzare il singolare dono di Dio: oggi sì. Oggi sono certo che senza quelle lezioni di religione, impartite con tanta competenza ed aderenza ai nostri veri bisogni dai buoni Padri del Sociale, tra una partita di calcio e una di tennis, nel pomeriggio di ogni giorno festivo, io mi sarei, come tanti altri, smarrito. Ebbi l’orientamento necessario e potei venire a contatto con giovani veramente esemplari nei giochi, nelle recite della filodrammatica, nelle opere buone, potei stringere amicizie edificanti. Al Circolo mi temprai anche per le lotte della vita, sì che serbo per quell’ambiente, tuttora fucina di bene, la più viva gratitudine. Mi attirava molto l’insegnamento: ecco perché, senza esitare, all’Università scelsi la facoltà di Lettere. Tra tutti gli insegnanti emergeva per la sua dirittura morale e la profonda dottrina Gaetano De Sanctis, che insegnava Storia antica. Senza avere io particolari attitudini alle ricerche storiche, scelsi lui come maestro: dalle sue lezioni si imparava veramente qualcosa di vitale; ricordo ancora la gioia di quei quotidiani contatti e acquisti, ricordo l’entusiasmo per lo studio che a noi ventenni comunicava quel mirabile ricercatore del mondo antico. Mi laureai, partecipai ad un concorso e a 21 anni insegnavo greco e latino in un Liceo: quello di Tolmino.


Professore in vari Licei d’Italia

Oggi mi domando: basta una laurea, un concorso vinto, per insegnare al Liceo? Non credo: è un altro sbaglio (di allora e… di ora?) dell’istruzione pubblica italiana: non fare percorrere, sotto controllo, un periodo di tirocinio ai giovani inesperti dell’insegnamento. Con quanta buona, ottima volontà, si commettono enormi errori pedagogici dagli inesperti!
Le tappe dopo Tolmino furono: Pinerolo, Alatri, Roma. Per dodici anni, con entusiasmo mai spento e con competenza solo lentamente acquistata, cercai di spiegare e commentare a migliaia di giovani Livio e Cicerone, Orazio e Virgilio, Omero, Eschilo, Platone. Devo però dire, con uguale franchezza, che il mondo classico, pur ricco (chi può negarlo?) di tanti valori, mi parve gradatamente, più lo approfondivo, cosi superato e distante dal mondo cristiano, che un certo senso di disagio mi coglieva più d’una volta. “Perché – mi chiedevo – la verità totale direttamente rivelata all’uomo da Dio non prende il posto, nella scuola, delle verità parziali (coperte di innumerevoli errori) ricercate faticosamente dagli uomini prima della venuta del Cristo?”.
Cercai di quando in quando di far sentire ciò che sentivo ai miei scolari, o direttamente nella scuola, o per mezzo di scritti (pubblicati da “Credere”, il settimanale dei giovani studenti di A. C.) e commenti ai classici per le scuole medie. Per una vera esigenza del mio spirito di studioso e di cristiano accumulai osservazioni, materiale vario per una revisione del mondo greco-latino pre-cristiano dal punto di vista del cristiano del ‘900. Le linee fondamentali del mio modo di vedere esposi in due commenti scolastici (editi dalla S.E.I.) alle Epistole di Orazio e al 2° libro delle Tusculanae di Cicerone. Tentativi molto modesti, ma che rivelano uno stato d’animo: ridurre e riunire tutto nel Cristo, pur rispettando – come è ovvio – la mentalità di chi non conobbe Cristo.
Anche con questo lavoro scolastico e parascolastico non ero completamente soddisfatto. La scuola continuava a piacermi, ma non soddisfaceva completamente un’esigenza in me sempre più viva. Quella dell’apostolato.



Scoperta della parola magica

Parola magica! Come si è acceso in me tale fuoco? (Non so trovare altra parola più adatta, anche perché l’ha usata Gesù). Non lo saprei dire. Libri? contatti con veri apostoli? stampa, congressi, convegni, settimane di studio…sì, un po’ tutto, ma soprattutto la grazia misteriosa. Ricordo gli anni del liceo, quando – cravatta di seta bianca svolazzante sul petto (non appartenevo anch’io alla tanto discussa, semiclandestina ” avanguardia” bianca?) si passeggiava per le vie affollate della nostra Torino in cerca di… discussioni con avversari o almeno di qualche manifesto anticlericale da lacerare e da coprire con un “Viva il Papa!”.
Manifestazioni di discutibile opportunità ed efficacia esterna: interiormente tenevano acceso nei petti il fuoco, indefinibile, dell’apostolato. Più tardi, molto più tardi, compresi che l’apostolato vero, quello che edifica, è uno solo, ed è silenzioso: è quello dell’esempio, anzitutto come uomo (studente, operaio, professionista, padre di famiglia, ecc.), poi come cristiano. Allora credevo ancora nel valore di una dimostrazione di piazza e negli “evviva!”. Guai se l’apostolato si materializza! Guai se l’Azione Cattolica diventa una macchina burocratica e vuole far del bene più coi richiami che con l’esempio!

Distintivo all’occhiello

Ho amato tanto (ed amo tuttora, benché non vi dedichi più la mia attività) l’Azione cattolica. Quel distintivo all’occhiello mi è stato scudo più d’una volta contro il male e richiamo al bene. Ho amato l’Azione cattolica per il tesoro impareggiabile che mi ha donato: il suo ardore apostolico. Ai miei tempi ci si lamentava perché il fascismo non permetteva altro che il pensare all’anima: eppure, a conti fatti, il non potere attendere l’Azione cattolica che al bene dell’anima, mi pare sia una limitazione provvidenziale. Penso che l’efficacia apostolica di questa grande organizzazione di laici che desiderano collaborare col sacerdote per estendere il regno di Cristo, e lo devono fare subordinatamente all’iniziativa e all’opera del sacerdote, sia condizionata alla vigilanza continua dei suoi capi, affinché l’Azione cattolica non si occupi davvero d’altro che di azione cattolica. Che i problemi scottanti del tempo non le facciano mai perdere di vista l’unico problema necessario, per il quale essa ha ragione di essere e di operare: il problema dell’eterno. Non si preoccupi mai del numero, delle tessere, delle quote: l’apostolato è irriducibile a problemi di numero.
L’apostolato è fermento: sarà sempre di pochi. Pochi ma buoni fanno anzi più che milioni di mediocri.

In ricerca del senso della vita

La posizione del laico che rinunzia a farsi una famiglia, e pur rimane nel mondo, per dedicarsi all’apostolato, è certo eccellente e lodata dalla Chiesa. Certo altresì che le cure della famiglia non permettono più una dedizione all’apostolato esterno quale può offrire chi sia celibe. Certissimo in più che la verginità, la castità che rinunzia per virtù al matrimonio, è assai più eccellente del matrimonio stesso. Ma, se non ci sia una vocazione più che speciale – ed è rarissima -, l’anima che pur cerca l’apostolato è preferibile scelga una delle due vie tradizionali: o la famiglia o il sacerdozio. Sa di sottile eresia, quando non sia bene chiarita, la frase che si sente ripetere: un laico può fare più di un sacerdote. E’ vero precisamente il contrario: un sacerdote santo può fare immensamente più bene che un laico santo, nel campo dell’apostolato. Proprio perché per natura, e per destinazione divina, il campo dell’apostolato è aperto in primo luogo e principalmente al sacerdote. Questo sia detto con tutto il rispetto e l’ammirazione profonda che sento per quelle anime belle, eccezionali, che rimangono, laici, nel mondo, votati all’apostolato. Questo scrivo per far conoscere il mio stato d’animo di allora. Che cosa avrei dunque dovuto fare? L’anima mia cercava… Seguire la via comune? Farmi anch’io una famiglia, proprio per dimostrare con i tatti che l’apostolato più bello è l’educare una famiglia cristianamente? Per qualche tempo orientai la mia vita in quella direzione.


Una mano misteriosa

Fu allora che intervenne, ancora una volta, e questa decisiva, la Vergine Immacolata. Proprio mentre da mesi dirigevo i miei passi verso la meta che mi pareva quella buona, l’Immacolata da me insistentemente invocata per una tempesta che minacciava il mio nuovo orizzonte, mi fece improvvisamente una precisa sensazione fisica: come di una mano misteriosa che mentre attraversavo una grande piazza mi fermasse e mi obbligasse a tornare – contro voglia – sui miei passi. Sentii d’un tratto un disgusto mai provato, intollerabile, della vita comune nel mondo, e contemporaneo un desiderio irresistibile del sacerdozio, via che avevo sempre scartato. E fu concretamente così: un giorno del settembre 1940 (la guerra già infuriava) nel segreto del mio cuore decisi di essere religioso e sacerdote. Dove sarei andato? Che famiglia religiosa avrei scelto? Questo non mi interessava. La decisione sì. E fu irrevocabile: a distanza di 14 anni posso, grazie a Dio, testimoniare che per quelli decisione non ho avuto un istante di rimpianto, ma anzi una pace e una gioiosa sicurezza sempre più sentita.
Sentii che l’Immacolata aveva infuso nel mio cuore quella decisione ed ebbi quindi la certezza che avrei realizzato tutto con il Suo aiuto. Alla mia età? Avevo 34 anni suonati. Con la professione che era in fondo la mia vita? Insegnavo allora al Liceo Mamiani di Roma. Con la mia non robustissima salute? Con gli affetti santi che mi trattenevano? Sentivo di dover lacerare dolorosamente l’attesa dei miei cari genitori (ormai vecchi), della mia cara sorella, con la quale ho sempre avuto comunione vivissima di sentimenti e di affetti, di vedute, di iniziative… Solo il Signore sa quanto io abbia dovuto lottare per sottrarmi… con la fuga a tanti soavi legami familiari.

Tra i cappuccini

Ma dove andare? Da chi bussare? Qui viene il mirabile. Conoscevo da anni Gesuiti, Domenicani, Salesiani, Giuseppini… Avevo rapporti di amicizia con Redentoristi, Preti della Missione… I Cappuccini li conoscevo di nome, avevo avvicinato qualche cappuccino in vita mia. Occasionalmente, e non mi erano (lo confesso) affatto simpatici. Benché fossi, da qualche anno, iscritto al Terzo Ordine Francescano, ero terziario per modo di dire, pochissimo osservante la pur semplicissima regola di perfezione per chi voglia vivere nel mondo con la spiritualità francescana.
Il mirabile fu questo. Presa la decisione, simultaneamente decisi anche: sarò cappuccino. Chi erano i cappuccini? Dove li avrei trovati? Mi avrebbero accolto? Nell’anticamera d’un amico, attendendolo, cercai in uno scaffale di libri qualcosa da leggere: mi capitò tra mano la vita di Ignazio da Làconi. Lo presi e senza attendere l’amico tornai a casa. Lessi quella vita mirabile di un fraticello laico cappuccino, illetterato. Quella lettura raddoppiò la mia certezza: sarò cappuccino. Cercai, trovai, fui accolto. Oggi sono cappuccino.
Il noviziato di Fiuggi passò in un baleno: lo trovai più mite di quanto me l’avevano dipinto. Buona volontà o non piuttosto delicata bontà del padre Maestro, che temette al mio arrivo improvviso di aver a che fare con una spia di guerra? Beata vita cappuccina che semplifichi tante cose: fare a meno del rasoio al mento, delle calze ai piedi, del cappello in capo! Mi sentii perfettamente a mio agio: scoprii che… forse ero nato cappuccino. Seguirono al noviziato pochi mesi di filosofia perché ne ero digiuno; quello studio, pure sommario, mi fu indispensabile per iniziare la Teologia. Frequentai poi a Roma per cinque anni l’Angelicum, gustando lezioni di maestri di grande valore: ma fin dal terzo anno, avendo io già superato l’età… canonica, potei essere ordinato sacerdote.

29 luglio 1945: Sacerdote

Dal 29 luglio 1945 ho il privilegio e la gioia ineffabile di celebrare la S. Messa. Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi? So benissimo che non sarò mai degno di celebrare – non se ne ritennero degni dei cristiani ben più santi di me, da Francesco d’Assisi al cancelliere Dollfus – e so benissimo che non potrò toccare dignità più grande di quella di consacrare il Corpo del Signore. Posso sì assolvere dai peccati – la prima volta che ascoltai una confessione ero così commosso, che mi pareva di avere tutto il mondo sulle mie povere spalle, – posso battezzare, unire in matrimonio, ungere con l’Olio degli infermi i moribondi… ma non posso, anche se convertissi a Cristo tutto il mondo, fare cosa più grande di una S. Messa. La Messa è tutto. Anche l’apostolato della parola, al quale da anni i superiori mi hanno voluto dedicare, è ben misera cosa in confronto di quella Messa che ogni giorno posso celebrare. La mia parola sacerdotale potrà dare – nella misura in cui non tradisce e non vela la parola di Gesù – luce a molte anime, anche – grazie alla radio e alla televisione – a milioni di anime; ma soltanto la mia azione sacerdotale all’altare, anche se per mia colpa poco affettuosa e attenta, applica alle anime il beneficio della Redenzione.
“Sono convinto che…”

Non la parola divina di Gesù salva il mondo dal peccato, ma la sua morte di croce, rinnovata misteriosamente in ogni S. Messa. Vale la pena fare qualunque sacrificio, anche per tutta una vita, per poter giungere a celebrare una S. Messa. Penso che un sacerdote deve semplificare la sua vita orientandola attorno alla Messa: il suo vero apostolato è far conoscere, amare la Messa con la sua vita trasformata giorno per giorno in una Messa. Quando ero laico mi facevano paura i sacerdoti che strapazzano la Messa per… correre a fare altro; oggi mi fanno pena. Sono profondamente convinto che il termometro della vita spirituale di una parrocchia è in una colonnetta di mercurio soprannaturale: la pietà e l’amore con cui i sacerdoti di quella parrocchia celebrano la S. Messa. La rinascita spirituale della comunità cristiana non ha altro inizio: la conoscenza migliore e la partecipazione sempre più viva, almeno nei giorni festivi, di tutti (?) i fedeli al divino Sacrificio. Ecco perché l’apostolato della parola (se Dio mi dà vita, quando avrò qualche anno di più forse tornerò anche a quello della penna) cerco di condensarlo e ridurlo – sia all’altare che in teatro, sia alla radio che alla televisione – a due realtà: Maria e Gesù.

Mariano: perché?

Ho preso un nome – Mariano – per onorare (almeno così!) Colei cui tanto devo. Penso con gioia che ogni volta che fanno il mio povero nome, risuona qualcosa di Lei. Alla madre della mia anima (delle cui dolcezze gusto qualche stilla nella mitezza d’animo della mia madre terrena) chiedo sempre d’insegnarmi non a predicare, ma a parlare di Gesù.
Abbiamo complicato tanto la faccenda dell’apostolato? Possibile che per far un po’ di bene ci voglia davvero tanta tecnica, tanta carta stampata, tante macchine organizzative? Non lo voglio credere. Dio è così semplice! Basta farsi uomini con gli uomini, come Lui s’è fatto uomo con noi. Forse la nostra parola ha poco mordente perché è fasciata di troppa seta: non è più nudamente evangelica.
Parlare di Gesù; e solo di Lui, alle anime.


Settimana del Vangelo

Ecco perché nelle missioni al popolo che con molti valorosi miei confratelli vado da anni facendo, pur non mettendo da parte mezzi moderni (dalla stampa all’altoparlante, al cinema), insistiamo su un tema solo: Gesù e Gesù Crocefisso. La gente di tutto si stanca, anche del più celebre oratore. Mai si stanca di sentire raccontare la storia di Gesù, ieri, oggi, nei secoli. In Lui c’è tutto.
Ecco perché nelle missioni al popolo mi sforzo di dare vita alla “Settimana del Vangelo” che ha un unico scopo: far entrare con onore il libro del Vangelo in ogni casa cristiana (c’è appena, oggi, nel 30% delle famiglie), conservarlo in un luogo di onore, leggerlo sovente alla famiglia riunita. Tutte le novene, i tridui, i panegirici non valgono il Vangelo conosciuto direttamente da tutti i cristiani. Il predicatore passa, il Vangelo resta. Spero prima di morire di sapere che la “Settimana del Vangelo” è stata fatta in tutte le città d’Italia. E’ la forma di apostolato più fondamentale, più semplice, meno costosa e più efficace.

Predicare o parlare alla gente?

Sento dire sovente da molti: i predicatori oggi non piacciono. Vedo d’altra parte che le chiese – per quanto noi ci illudiamo, vedendole gremite la domenica e feste principali – sono praticamente disertate dal 70% della popolazione italiana. Chiunque abbia predicato sa che, anche in occasione di missioni, le prediche sono frequentate non più che dal 30% dei parrocchiani. Di chi la colpa? Si predica spesso ad ora impossibile per chi vive nel mondo e ha i suoi impegni di lavoro o di famiglia. Perché non si fanno tutte le prediche dopo cena, quando tutti sono effettivamente liberi, se vogliono, di frequentarle? Perché si predica cosi di rado all’aperto, negli stadi, nei giardini, a quelli che non vogliono mai entrare in chiesa? Perché, soprattutto, si predica cosi poco l’adorabile persona di Gesù? Il Cristianesimo non è tanto una dottrina (sia pure la più alta perché divina), quanto una persona: l’essenza del Cristianesimo è la persona di Gesù Cristo. La predicazione è poco “essenziale”, poco cristiana, perché si parla troppo poco della persona di Gesù. Si parli, non si predichi. Credo che cosi abbia fatto Gesù, che parlava, non predicava, col tono stentoreo, ingrato, inefficace di troppi ministri di Dio.
Accanto alla spiegazione del Vangelo occorrerebbe insistere su quella della Messa, fino a che tutti la conoscano bene e meglio; invece che le inutili prediche e novenari per feste patronali, meglio si farebbe a spiegare, convenientemente, il catechismo agli adulti (ma non farlo durante la Santa Messa). Non è il male che faccia male; è il non far bene il bene che lascia crescere il male. C’è un solo modo per combattere il male: fare il bene, ma farlo bene.

Queste mie confidenze scaturiscono da un decennio di vita sacerdotale, iniziata quando già avevo conoscenza della mentalità dell’uomo d’oggi, per esperienza personale. E se ho una sofferenza è il vedere quante energie sacerdotali sono ancora sciupate, inutilizzate, rese sterili perché male indirizzate o non bene corrette.

Un’impressione

Se posso esprimere una mia impressione, è questa: qualche volta il sacerdote non ha vera “comprensione” del mondo d’oggi. Manca, tra lui apostolo e il mondo che vuole avvicinare, quella conoscenza vera, intima, cordiale, dell’uomo d’oggi, che non è data dalle riviste o dalle settimane di aggiornamento, ma dalla preghiera fervorosa e dall’avvicinamento personale. Si sente in chi “predica” che avvicina di fatto poco le anime: i suoi ragionamenti sono scolastici, aerei, teorici, non aderenti al vero stato d’animo d’oggi. Si entra troppo presto in seminario o al noviziato? Non so (certo io non rimpiangerei il servizio militare obbligatorio anche per i chierici). Si vive più di letteratura ecclesiastica che di esperienza vissuta? (tre anni di cappellano d’ospedale hanno dato a me, già… avanti negli anni, più esperienza che tutti i libri di morale). Credo che il modello insuperabile dell’apostolo sia il Curato d’Ars, che non si staccava da Gesù Sacramentato se non per andare a visitare tutti (uno per uno) i suoi parrocchiani. Credo che ogni sacerdote che ha cura d’anime, più che starsene nell’ufficio parrocchiale, dovrebbe sistematicamente dedicare ogni giorno un certo tempo alla visita (ininterrotta) di tutti i suoi fedeli.

Ringrazio la Provvidenza di aver fatto sentire a me la sua voce chiara quando già ero maturo d’anni. Non so se prima avrei gustato tanto la grazia del Sacerdozio e se sarei stato preparato all’apostolato sacerdotale. L’esperienza del mondo mi giova moltissimo. Quando mi sento dire: “Padre, lei ci capisce…”, vorrei rispondere a quelle anime: “Non è merito mio, è dono… dell’esperienza”. Quando mi scrivono: Si direbbe che lei, Padre, abbia vissuto nel mondo…” rido sotto i baffi e la barba, e… ringrazio la Provvidenza.

Un cammino facile

Il mio cammino è stato – direi una bugia se dicessi il contrario – facile. Forse il Signore mi riserva prove più difficili per il futuro, perché mi vede ancora debole e inesperto di lotte vere. Sin qui ho sentito sempre la mano delicatamente materna di Maria che guida i miei passi.
Ostacoli? Ne ho trovati tanti e ne trovo continuamente. Non tanto nel convento, nella diversità di carattere dei frati, nel mondo, nelle sue sottili e sempre varie tentazioni, quanto invece nel mio sempre rinascente egoismo. Quell’uomo nuovo che il Maestro di noviziato mi ha detto di rivestire quando mi ricoprii per la prima volta (ero in calzoni allora e maniche di camicia) con la tonaca francescana, non è ancora nato. Sono ancora nell’anticamera del noviziato: nel probandato.

“Se io fossi migliore…”

Ogni giorno spunta qualche pelo bianco e si rinsalda la convinzione che l’unico vero ostacolo al bene, al bene che potrebbe attraverso me sacerdote operare il Signore – sono proprio io: è il mio odiosissimo io. Gli uomini? Sono sempre più convinto che sono tutti, sia gialli che rossi che neri che bianchi, più disgraziati che colpevoli. Sarebbero tutti migliori, se lo fossi io migliore. Perciò chiedo, a chi leggerà queste povere confidenze, un’Ave per la povera anima mia. Non ci stacchiamo mai da Maria: la causa di tutti i nostri guai è il non credere abbastanza nell’amore di quella Mamma Immacolata.

Padre Mariano di Torino

Pubblicato con il permesso dei Padri Cappuccini
Fonte: Autobiografia – Padre Mariano da Torino

Mariano da Torino, o semplicemente Padre Mariano, al secolo Paolo Roasenda (Torino, 22 maggio 1906 – Roma, 27 marzo 1972), è stato un presbitero, conduttore radiofonico, conduttore televisivo e frate cappuccino italiano, attivo in Rai dagli anni cinquanta agli anni settanta. Il suo saluto ai telespettatori e ai radioascoltatori, “Pace e bene a tutti”, è entrato nell’immaginario collettivo.
(da Wikipedia)

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