Biffi: Il cuore dell’annuncio cristiano 3/4

L’ANNUNCIO DI UNA PERSONA
«lo sono la via, la verità, la vita» sono le parole di Gesù. Essere cristiani è credere questo: che la morte e resurrezione di Gesù è la strada della nostra salvezza.

– Card. Giacomo Biffi –

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E QUI LA SECONDA PARTE

«Gli annunziò la buona novella di Gesù» (At 8,35: euenghelìsato auto ton lesoùn). L’icastica espressione degli Atti degli apostoli – che così sintetizzano tutto l’insegnamento impartito da Filippo al ministro della regina Candacé – ci fa capire che il contenuto primordiale e onnicomprensivo dell’annuncio cristiano è, oltre che un «fatto», anche una «persona»; senza che per questo si possa parlare di un’alte-rità ne t-anto meno di un’opposizione tra i due dati.
«È stato risvegliato» (eghèrthe), del resto, non è una forma
impersonale: ha un soggetto che è Gesù di Nazaret. A lui si riferisce il «fatto»; e quindi nella sostanza è lui il «cuore» e il compendio di quel messaggio pasquale che sta all’origine dell’intera storia cristiana e ne costituisce l’impulso permanente e insostituibile.
Non ci meraviglierà allora il vedere che negli scritti neote-stamentari molte delle antiche formule – dirette a esprimere l’essenza stessa dell’Evangelo e la sua assoluta novità entro il contesto religioso israelitico – siano eminentemente «cristologiche».

«Gesù è Signore»

II titolo tipico e più comune che Gesù acquisisce presso i discepoli in conseguenza e in virtù della sua Pasqua – cioè del suo «passaggio» dalla tribolata esistenza terrena alla gloria della vita risorta – è quello di «Signore» (Kyrios).
Il termine era già stato usato nei suoi confronti negli anni «prepasquali», come risulta dalle narrazioni evangeliche, a significare semplicemente rispetto e cortesia conformemente alle normali abitudini sociali. Ma dopo l’evento pasquale assume un’altra e ben diversa valenza, riacquistando l’accezione nativa che indicava «potenza», «dominazione», «autorità».
Con questo contenuto semantico era già entrato nel linguaggio dei vari culti greci a evocare una prerogativa divina e anzi la stessa Divinità. Nell’ebraismo ellenistico Kyrios è impiegato come traduzione di «Adonài», e quindi come sinonimo di Theòs: Dio.

La signoria del Risorto

La prima comunità cristiana attribuisce la qualifica di Kyrios a Gesù di Nazaret, con la chiara ed esplicita consapevolezza dell’intima connessione di questo titolo con la nuova condizione di «risorto» del figlio di Maria, cui adesso «è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (cf Mt 28,18). Tale connessione è apertamente dichiarata nella formula di fede, riferita dalla lettera ai Romani, quale era proposta ai neofiti: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è Signore, e crederai col tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9), Proprio l’accoglimento della signoria del Risorto è qui ritenuta condizione indispensabile per accedere a quella «via della salvezza» che entrava a costituire la «buona notizia» annunciata dalla Chiesa apostolica. Se ne ha, conferma anche dall’episodio del carceriere di Filippi, raccontato dagli Atti. A lui, che chiede che cosa debba fare per essere salvato. Paolo e Sila rispondono: «Credi nel Signore Gesù e sarai salvo» (At 16,31).
Come si vede, la parola «Signore» (K’ópux; – Kyrios), che viterie di solito riservata al Risorto, diventa nei tempi apostolici quasi comprensiva di tutta la fede cristiana: aprirsi al Kyrios significa aprirsi all’intero piano di redenzione incentrato sulla morte e sulla risurrezione di Cristo.
«Gesù è Signore» è dunque la formula sintetica dell’intero Evangelo, che ogni uomo è chiamato ad accettare cordialmente nel suo mondo inferiore e a proclamare coraggiosamente davanti a tutti.. Come dice l’inno dei Filippesi: «Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore» (Fil 2,11: Kyrios lesoùs Christòs). A questa fede, che trascende le possibilità di una conoscenza puramente naturale, non si arriva se non in grazia di una illuminazione dall’alto: «Nessuno può dire: “Gesù è Signore” (Kyrios lesoùs), se non sotto l’azione dello Spirito Santo»
(1 Cor 12,3).

Il vincitore della morte

Scaturendo dall’evento della risurrezione, la signoria di Cristo è signoria prima di tutto sulla morte: «La morte non ha più potere su di lui» (Rm 6,9). II Crocifisso Risorto è vivo non come chi non ha ancora incontrato la morte (e quindi è ancora un suo suddito potenziale), ma come chi, avendola incontrata, l’ha superata e vinta: egli è quindi il dominatore della morte.
In questo concreto ordine di cose in cui ci è toccato di vivere, la morte è la sola potenza invincibile: tutti appaiono a lei sottomessi, predestinati a cadere presto o tardi in suo potere. Dalla trasgressione di Adamo, essa si è imposta quasi come l’antitesi di Dio, che è «vita», e ha fatto del mondo il suo regno: «la morte ha regnato», dice mestamente san Paolo (cf Rm 5,14.17). È dunque la «signora» dell’universo; ma se c’è uno che l’ha sconfitta, allora il «Signore» è lui.
Avendo spodestato la morte, è subentrato a lei in tutta l’ampiezza del suo dominio. Perciò Cristo «è il Signore di tutti» (cf At 10,36). Gli uomini senza eccezioni – non solo quelli che oggi vivono sulla terra, ma anche quelli che sono vissuti prima – trovano in lui il loro unico rè. «Per questo Cristo è morto ed è tornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14,9).
L’Apocalisse – libro conclusivo del Nuovo Testamento – troverà l’espressione per così dire «metafisica» della signoria del Risorto:
«Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra l’Ade “cioè il soggiorno dei morti e la sede delle potenze infernali”» (Ap 1,17.18).

Signoria di Cristo e libertà dell’uomo

Ci sia consentita una nostra riflessione, dopo aver ascoltato le testimonianze della Chiesa apostolica.
«Gesù è Signore»: questa antica formula è la premessa e il fondamento della nostra autentica libertà.
Noi non abbiamo ne possiamo avere alcun padrone, perché abbiamo già il nostro padrone.
Di qui è nato e si è sviluppato lentamente ma inesorabilmente il cambiamento di prospettiva nei rapporti sociali che ha portato, entro la civiltà cristiana, all’abolizione irreversibile della schiavitù:
appunto dal sapere e riconoscere che per tutti – liberi o sottomessi che siano, entro le strutture mondane – «c’è un solo Signore nei cieli» (Ef 6,9).
Rifiutare la signoria di Cristo è porre le premesse per una ricaduta nell’assoggettamento a qualche rinascente tirannia, che in vari travestimenti voglia ripresentarsi alla ribalta della storia. Chi non accoglie Gesù risorto come l’unico Signore troppo spesso finisce col lasciarsi dominare da eventuali nuovi «padroni di uomini», o dai diversi idoli che sollecitano una indebita adorazione, o dai miti arbitrari che esigono di essere onorati come la verità. Come ripetutamente dice sant’Ambrogio: «Quanti padroni finisce coll’avere, chi rifugge dall’unico Signore!» (cf ad esempio Epistulae extra coiteci. XIV, 96).
Un’ultima annotazione: la signoria di Cristo è la chiave di volta di tutta l’armoniosa costruzione dell’universo, quale appare agli occhi del Creatore, dove non c’è frammento d’essere che sia casuale e senza appartenenza. In essa anche noi siamo «signori del mondo»: desumiamo autorevolezza, «regalità partecipata», dominio legittimo sulle creature proprio dalla vitale connessione con il Kyrios e dal cordiale riconoscimento della sua intramontabile regalità: «Tutte le cose sono vostre, voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio» (1 Cor 3,23).
Gesù e l’apice dell’Albero di lesse in questa illustrazione tratta dal Salterio Ingeburg, un manoscritto miniato del Duecento, che si trova al Museo Condé di Chantilly.

«Gesù è il Cristo»

A Corinto – raccontano gli Atti – «Paolo si dedicò tutto alla predicazione, affermando davanti ai Giudei che Gesù era il Cristo» (At 18,5).
Era naturale che, dovendo far conoscere e accettare la realtà trascendente e salvifica di Gesù di Nazaret a quanti erano di religione e di cultura ebraica, si facesse ricorso alla categoria della «messianicità», ben presente e diffusa tra gli Israeliti.
Senza dubbio, a facilitare l’approccio al protagonista dell’evento pasquale giovava additarlo come la risposta e l’esaudimento di un’attesa nota e condivisa: quella di un discendente di Davide, designato dalla tradizione come il «consacrato» per eccellenza; consacrato in modo eminente e singolare con una «unzione», così come con una unzione era stata segnata e santificata, lungo la vicenda della nazione, la missione dei rè, dei sacerdoti e dei profeti.
«Cristo» – appellativo che subito viene assegnato al Risorto – è la traduzione greca della parola «messia», che appunto vuoi dire «unto».
«Gesù è il Cristo»: questa formula si affianca quindi nella predicazione apostolica alla formula «Gesù è Signore».

Gesù e il titolo messianico

La prima comunità aveva memoria che la qualifica messianica era già stata attribuita al Nazareno nei giorni della sua vita terrena.
L’episodio più rilevante e meno obliabile a questo proposito era stata la dichiarazione di Simon Pietro a Cesarea di Filippo: «”Voi chi dite che io sia?”. Pietro rispose: “Tu sei il Cristo”» (Mc 8,29: sy èi o Christòs). Ma non ci si dimenticava neppure che il Maestro, su questo punto, a lungo si era dimostrato guardingo e anzi aveva intimato addirittura una rigorosa reticenza: dopo la professione messianica di Pietro, annota lo stesso evangelista Marco, «impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno» (Me 8,30); e più esplicitamente Matteo nel passo parallelo; «Ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo» (Mt 16,20).
La ragione di questo atteggiamento è facilmente intuibile: nel giudaismo dell’epoca l’attesa messianica era divenuta più che altro desiderio e sogno di un’azione di liberazione e di rinascita d’indole sociale, politica, nazionalistica. In concreto si aspirava a un «Consacrato» inviato dal Dio d’Israele, che spezzasse l’oppressione straniera e restaurasse l’antico regno davidico. L’eventualità di un «messia» di questa natura era paventato anche dai dominatori romani; e proprio di questi timori si servono abilmente le autorità del sinedrio per spingere all’intervento il riluttante procuratore Filato. Gesù viene condannato appunto con l’accusa di essersi presentàto come «il Cristo/il re d’Israèle» (cf Mc 15,32), il «re dei Giudei» (cf Mc 15,26) «detto Cristo» (cf Mt 27,17.22).

Però negli ultimi giorni della sua permanenza terrena -quando ormai avvertiva prossima la «catastrofe» del Golgota, che avrebbe reso improponibile ogni sviante interpretazione «mondana» – Gesù aveva sciolto ogni risèrva e oltrepassato tutte le precedenti cautele.
Due occasioni erano state particolarmente significative ed eloquenti.
C’era stato l’ingresso in Gerusalemme, voluto e personalmente organizzato da lui, nel quale egli si lascia acclamare coi titoli messianici di «Re» (cf Lc 19,38), di «Figlio di Davide» (cf Mt 21,9), di apportatore del «Regno» sperato (cf Mc 11/10). E c’era stata l’ora fatidica e decisiva del suo processo davanti al sinedrio, quando risponde affermativamente alla domanda se egli sia «il Cristo, il Figlio del Benedetto»: «Io lo sono» (cf Mc 14,61-62).
Perciò la comunità dei discepoli, che si ricostituisce dopo la Pentecoste, non ha dubbi nell’accogliere e predicare la dignità messianica come parte integrante della identità stessa del suo Maestro. Come testimoniano gli Atti, «ogni giorno nel tempio e a casa non cessavano di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo» (At 5,42: euanghelizòmenoi ton Christòn Iesoùn).

Un messianismo «pasquale»

Questa nuova e ormai irrinunciabile «coscienza messianica» nasce nei discepoli ed è sorretta dalla vittoria gloriosa del Nazareno e dalla conseguente certezza – come essi affermano con franchezza davanti alle autorità e ai maggiorenti del loro popolo – che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31); conversione e perdono che sono visti ormai come i veri beni che ci si deve attendere dal Messia.
«Signore» e «Messia» («Cristo») appaiono ambedue nella catechesi «appellativi pasquali», illuminati e giustificati dalla novità della risurrezione. Si spiega quindi come da Pietro, nel discorso del giorno di Pentecoste, siano citati insieme e in connessione: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Messia (Kyrion kài Christòn) quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36).

Nella predicazione alle «genti»

Si potrebbe supporre «a priori» che il titolo messianico («Cristo») – legato com’era ai convincimenti e alle speranze degli Israeliti – non aveva motivo di essere tenuto in onore presso le Chiese di stirpe, di lingua, di cultura greca. E invece non avviene così: proprio nelle comunità che sorgono dai «gentili» il suo uso si dilata e sempre più si rinsalda, al punto che l’appellativo sembra quasi entrare a far parte del nome stesso del Risorto, .che viene detto sempre più frequentemente «Gesù Cristo»; o, più estesamente, «il Signore nostro Gesù Cristo». Non a caso, proprio in una comunità prevalentemente ellenistica, come quella antiochena, «per la prima volta i discepoli furono chiamati “cristiani”» (At 11,26); cioè «seguaci di Cristo».  Tali verosimilmente apparivano anche agli «altri», vale a dire, all’intera città.
Naturalmente, trasferendosi in un contesto diverso da quello della sua origine, «Messia» («Cristo») assume una valenza semantica più generale e più ampia: è colui che Dio ha mandato come risposta ed esaudimento per tutte le fondamentali richieste degli uomini, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica e dalla loro condizione politica e sociale:
richieste, intrinseche a ogni mente e a ogni cuore, di verità assoluta, di senso dell’esistere, di perdono, di consolazione, di gioia.
È stato giustamente notato che in san Pàolo – che noti sa addurre nessuna argomentazione senza ripetere quasi ossessivamente «in Cristo» – il termine è impiegato praticamente come sinonimo di «salvatore di tutti»: «Gesù Cristo» o «Cristo Gesù» – come egli spesso dice – è colui che ci riscatta da ogni guaio e ci solleva da ogni nostra miseria.

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