La via Crucis quotidiana tra malati e storpi. Corpi di Cristo nella clinica

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Ti adoriamo o Cristo e Ti benediciamo perché con la Tua santa croce hai redento il mondo». Questo è il grido silenzioso che per 365 giorni all’anno fuoriesce dal mio cuore ogni volta che mi accosto a ognuno dei 27 letti che occupano gli spazi della clinica Divina Provvidenza, San Riccardo Pampuri. Avvolto in lenzuola bianche, sempre pulite (ogni paziente terminale ne usa almeno 4 paia al giorno), il corpo martoriato di Cristo continua a donare la sua vita per donare a noi la vita. Quando le gambe me lo permettevano, mi inginocchiavo per dare un bacio a ciascuno e comunicare un po’ della tenerezza divina insieme alla gratitudine di tutti noi e del mondo intero perché ognuno di questi malati è come “agnello condotto al macello” per la salvezza di tutti.

Guardandoli non li riconosco come “simboli” di Cristo ma come il corpo stesso di Cristo vivo; quel corpo che sudava sangue nell’orto del Getsemani e che nella sua solitudine implorava il Padre perchè allontanasse da Lui l’amaro calice della passione; quel corpo crocefisso che prima di esalare il suo ultimo respiro gridò: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Contemporaneamente vedo in ognuno di loro, avvicinandosi il momento della morte, lo stesso abbandono di Gesù alla volontà del Padre. Ho accompagnato a morire più di mille persone di tutte le età e ognuno di loro è morto passando, molto spesso, attraverso dolori terribili e imparando, per pura grazia, a consegnare la propria vita a Gesù a beneficio di ogni uomo e in particolare dei sacerdoti, ai quali è dedicata tutta la sofferenza che si respira in questa casa. Siamo nella Settimana Santa e voglio avvicinarmi assieme a voi, cari lettori, al letto di “ogni Gesù” che soffre. Sottolineo il nome di Gesù, perché se non ci fosse questa certezza non troverei ragionevole questo oceano di dolore.

Ti adoriamo o Cristo e Ti benediciamo perché con la Tua santa croce hai redento il mondo.
Nella stanza numero uno troviamo tre donne: Clotilde, 29 anni, 6 figli; María, 76 anni, con un cancro al collo uterino; Porfiria, 75 anni, 6 figli, con metastasi generali. Tutte e tre hanno conosciuto solo la miseria e l’abbandono. In particolare Clotilde, continuamente ingannata da diversi “uomini” che dopo aver abusato di lei l’hanno lasciata sola, con sei bambini piccoli. È arrivata nel nostro ospedale dall’interno dal paese, dove viveva in una baracca fatta di assi e col soffitto di lamiera. Qui il caldo per diversi mesi l’anno supera i 40 grandi. Il suo ultimo convivente l’ha abbandonata quando ha saputo della sua malattia. «Ora non mi servi più», sono state le sue ultime parole prima di andarsene con un’altra. È un ritornello che molte di queste donne giovani affette da cancro all’utero e al collo uterino, ci ripetono quando giungono da noi. I primi giorni Clotilde, ridotta a 40 chilogrammi, non parlava. Era come una bambina terrorizzata. Aveva paura di tutti. Si affezionò molto a me, perché sono un “pa-í”: il prete era ed è tuttora considerato una specie di “sciamano”, una persona sacra e nello stesso tempo con poteri magici. Tutte le volte che mi avvicino a lei, con una mano afferra le mie e ne appoggia una sulla sua guancia; con l’altra mi accarezza il braccio. Con nessun uomo ha potuto esprimere la sua fame di tenerezza, perché era solo una bella femmina sulla quale sfogare la loro bestialità. Ora è felice, si sente amata e tutti i giorni riceve l’Eucaristia. Ridotta a pelle e ossa, la prima domenica di Quaresima ha ricevuto la cresima. Era felice.

Ti adoriamo o Cristo e Ti benediciamo perché con la Tua santa croce hai redento il mondo.
Entriamo nella stanza numero due. Due belle ragazze, con tumore cerebrale, si fanno compagnia. Miriam, mora e con un bel viso, ha 26 anni e due figli. Guillermina, 25 anni, di figli ne ha quattro. Stanno con noi da tempo ma nessuno viene a visitarle. Miriam, alla quale i medici hanno praticato una tracheotomia, è appena uscita dal coma. Ogni volta che la chiamo per nome, accarezzandole il viso, mi guarda con i suoi occhi neri che brillano, con un desiderio grande di parlarmi. Il suo corpo è storto e deformato, le mani rovesciate all’indietro e chiuse a pugno. Mi torna alla mente la figura di “Hermann lo storpio”, nella descrizione che ne fa Martindale nel suo libro Santi. Anche il corpo di Guillermina è deformato come quello di Miriam, ma all’inizio balbettava qualche parola. Ora invece non riesce più e la sua bocca è completamente aperta, come bloccata, senza alcuna possibilità di poterla chiudere, né di mangiare. Vive grazie a un respiratore, cibandosi attraverso un sondino. Continuo a parlarle, ma lei non apre neppure gli occhi. Guardandole tutte e due, commosso, il mio pensiero va a quanto afferma san Gregorio Nazianzeno: «Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei una creatura finita…». Ancora una volta, la gioia della fede ci permette di entrare nella profondità di questo mistero che è il dolore e in questo tipo di dolore. Se invece di vivere qui con noi fossero andate in altri ospedali, sarebbero state facilmente considerate un caso pietoso, da eutanasia. Senza l’incontro con Cristo, siamo sinceri, non verrebbe a galla la drammatica domanda: che senso ha la vita e in particolare la vita di Miriam e Guillermina? Tuttavia, noi che ci viviamo insieme, contempliamo nei loro visi il volto stesso di Gesù e nei loro corpi orribilmente deformati, il tempio dello Spirito Santo. Proprio per questo ringrazio le infermiere che si occupano di loro con un affetto commovente, tentando sempre di capire i tratti del loro malessere. Perché è davvero terribile, nel caso di Miriam, essere sveglia, avere un prurito e non poter chiedere aiuto. Sembra una banalità, ma cerchiamo di pensare a un “piccolo” dettaglio come questo quando a noi succede un fastidio simile. Inoltre ci sono le piaghe da decubito, contro le quali c’è una lotta quotidiana dovuta alla difficoltà di muoverle e di trovare le posizioni più adeguate per poter intervenire. In questa stanza il silenzio è pieno della Sua evidente presenza e tutto si trasforma in supplica.

Ti adoriamo o Cristo e Ti benediciamo perché con la Tua santa croce hai redento il mondo.
Nella stanza numero tre ecco gli uomini: Saturnino, 54 anni e 15 figli, con insufficienza renale cronica; Carlos, 47 anni, una figlia, totalmente paralizzato; Esteban, 50 anni, con un cancro all’occhio destro. Il giorno che Esteban è arrivato in clinica, l’infermiera mi ha chiamato sconcertata perché non aveva mai visto la “brutalità” di un cancro come questo e, quel che è peggio, l’abbandono nel quale i medici dell’unico ospedale dei tumori del Paraguay lasciano chi è già classificato come incurabile e senza soldi. Dopo avergli tolto la benda che copriva quello che un tempo era l’occhio destro, è emerso un enorme buco pieno di carne marcia e con decine di vermi che uscivano da tutte le parti. Grazie a uno spray creato per queste piaghe, (che sono all’ordine del giorno in certi pazienti che arrivano alla clinica), Lilly, l’infermiera, con una serenità commovente, usando delle pinze sterilizzate, cominciò a togliere questi “esserini” immondi uno alla volta; per quelli che cadono sul pavimento si prende cura la signora delle pulizie. Dopo un’ora aveva riempito una boccetta di plastica con questi “animaletti”. Straordinaria la calma e la serenità dell’infermiera, frutto della fede. Carlos, invece, è da tempo completamente paralizzato e cieco. Eppure lui è la personificazione della positività. Ha sempre una parola di aiuto per tutti. Ricordo che un giorno non stava molto bene e il tempo era brutto. Quando sono arrivato nella sua stanza per dargli la comunione mi domandò: «Padre, come stai? La tua voce è differente dagli altri giorni». Io, in Guaraní, gli ho risposto che avevo quella voce perché pioveva. E lui: «Padre, deve essere felice perché la pioggia è una grazia. Con la pioggia cresce l’erba, le vacche la mangiano e loro ci danno il latte di cui abbiamo tanto bisogno». Sono rimasto senza parole e pieno di gratitudine. Questa è la santità: un uomo completamente immobile, cieco e che vive grato e commosso perché tutto è bello e provvidenziale. A chi gli si avvicina per chiedergli come sta, lui risponde: «Vivo come un re, ho tutto. Ho da mangiare, mi vogliono bene e mi puliscono».

Ti adoriamo o Cristo e Ti benediciamo perché con la Tua santa croce hai redento il mondo.
Entriamo nella stanza numero quattro, dove una bambina di 3 anni (con una fibrosi cistica, da quando aveva 9 mesi) vive con l’ossigeno. L’ha raccolta una dottoressa in una favela, dove viveva sotto un albero in compagnia di sua madre e altre tre sorelline. Abituata all’ossigeno, non appena si sveglia subito controlla se il tubo funziona bene e se vicino a lei c’è il grande contenitore di riserva. Teme che le venga meno la possibilità di respirare. Quello che sarebbe un fastidio per gli altri bambini, per lei è una necessità. È molto cara e simpatica a tutti e non riesce a rimanere un solo istante senza compagnia. Desidera camminare e proprio per questo abbiamo deciso di allungare il tubo dell’ossigeno in modo che possa muoversi. La sua vita è sempre stata un calvario, sin dalla nascita, e solo l’incontro provvidenziale con questa dottoressa brasiliana l’ha salvata. Nella clinica tutti ci alterniamo per stare con lei. Ancora una volta è evidente che solo dentro un’appartenenza, lei come ognuno di noi, si stabilisce una vera sicurezza per la propria persona e per il suo cammino.
Ti adoriamo o Cristo e Ti benediciamo perché con la Tua santa croce hai redento il mondo.
Nella stanza numero sei stanno “i miei figli”: Aldo Trento e Mario. Sono ancora vivi nonostante la loro grave situazione. Pian piano, ogni giorno che passa si spegne in loro la voglia di ridere, mentre le ore di sonno sono cresciute molto. Aldo occupa già tutto il letto, ha raggiunto 1,60 metri di altezza. La sua testa è sempre della stessa misura. Sorride soltanto quando gli batto dolcemente il cranio: subito mima il gesto che normalmente lui stesso ripete. Mario “grida” sempre meno le sue lamentele e i suoi continui “perché, perché, perché” si stanno sempre più spegnendo. Davanti a loro, impotenti e bisognosi di tutto e di tutti, si respira la vibrazione del Mistero presente, che “spiega” il perché del loro esistere. Loro, come tutti, sono frutto del Mistero che li crea in ogni istante e questa certezza mi permette di toccarli e poi di fare il segno della Santa Croce. Cosa sarebbe il mondo senza di loro? Una “bomba a tempo”.
Ti adoriamo o Cristo e Ti benediciamo perché con la Tua santa croce hai redento il mondo.
La stanza numero sette ospita due giovani madri malate di Aids. Lucia viene dalla frontiera del Brasile. Ha 4 figli ed è stata infettata dal suo compagno. Una notte, tornando a casa, è stata anche rapinata. Le hanno rubato la moto sparandole nella pancia. Era incinta e ha perso il bambino. Il suo viso è sempre triste. Solo dopo aver ricevuto i sacramenti il suo volto ha cambiato aspetto. Vicino a lei Elida, una bella ragazza con tre creature. Viveva con un tedesco che l’ha contagiata, e poi abbandonata. Gli effetti collaterali dell’Aids hanno colpito il sistema nervoso deformando completamente il suo corpo che è rimasto piegato con un ginocchio che le sfiora il mento; la bocca è completamente aperta senza possibilità di poterla chiudere. Secondo i medici sarebbe già morta se non fosse stata qui con noi che la circondiamo e riempiamo di affetto. Quando la bacio mi guarda con una tenerezza commovente. Muove solamente gli occhi. La sua impotenza è totale. Tuttavia l’amore che le offriamo, che è l’evidenza della resurrezione di Cristo, le permette di testimoniarci con i soli occhi, la sua offerta totale a Gesù.

Il mio percorso dentro la clinica procede ancora per diverso tempo, per poi concludersi davanti al Santissimo Sacramento che rappresenta ed è la ragione stessa dell’esistere della clinica. In Lui tutto questo dolore, questo cammino di “morte”, si trasforma in resurrezione. Una certezza che è evidente nel viso di ogni malato.

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Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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