In un mondo in cui la realtà è manipolata o ridotta a propria immagine, ai propri progetti, è inevitabile la disperazione che vive la maggior parte degli uomini. Tutti i giorni ricevo mail di persone che chiedono, gridano aiuto. La risposta non può essere ridotta a parole già confezionate o a una ricetta – come vorremmo – che siamo convinti possa farci trovare la soluzione. Amare la realtà coincide con un cammino personale, si tratta di verificare come l’incontro con Cristo corrisponda a ciò che il nostro cuore desidera. È uno spettacolo, una commozione quando incontriamo qualcuno in cui è evidente il cambiamento di prospettiva nel guardare, nel vivere la realtà. È come un bel sentiero delle Dolomiti che porta in cima alla montagna, dove si può arrivare a piangere per la bellezza che ci circonda. In questi giorni ho ricevuto una mail che lancio come sfida a tutti gli amici. Voglio introdurla citando come premessa alcuni versetti del profeta Isaia:
Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre davanti a me.
Carissimo padre Aldo, a dieci anni ho subìto un trauma da anestesia totale quando per tre volte, nel momento in cui mi stavo addormentando, mi sono strappata la mascherina perché sentivo venire meno la vita. In seguito non sono più stata padrona di me stessa e la paura della morte ha preso il sopravvento sulla mia vita; ero terrorizzata dalla paura di morire e ogni volta che appoggiavo la testa sul cuscino mi prendeva il panico e cominciavo ad ansimare e a tremare fino a far sbattere contro al muro la testata del letto. Il medico mi aveva diagnosticato un esaurimento nervoso e così cominciai ad assumere tranquillanti.
Col passare del tempo avevo risolto il problema, ma con l’andare degli anni le mie paure cominciavano a prendere una forma diversa; a 14 anni il vuoto e la mancanza di senso della vita erano già diventati il cruccio delle mie giornate e non trovando risposte ho cercato di azzittire queste domande cominciando a fumare spinelli, per poi arrivare a 16 anni con una siringa nel braccio. Ho cominciato per curiosità ma da subito sono scivolata nel spirale della tossicodipendenza. Ben presto mi resi conto che anche quello non mi bastava, non mi bastava essere fuori di testa perché sentivo ancora l’urlo dentro di me che cercava un senso alla vita, e così arrivavo a mescolare psicofarmaci con l’eroina fino al punto di essere piegata dal sonno, fino al punto di non essere più presente. Per riuscire a procurarmi una dose facevo di tutto, persino vendermi. Avevo annientato totalmente la mia persona.
Non mi era mai andata bene la vita che facevo, nel giro di 10 anni ho fatto tre programmi terapeutici in comunità di recupero, ma non appena uscivo il vuoto e il non senso mi aspettavano al varco e ogni volta scivolavo in un’angoscia profonda, buia e vertiginosa. L’unica cosa che mi faceva respirare era quando mi innamoravo di un uomo, ma per la mia incapacità di relazionarmi e per la fretta bruciavo tutte le tappe col sesso, così che anche questo, a sua volta, perse di valore; cercavo l’amore ma non sapevo cosa fosse e la passione lasciava dietro di sé solo terra bruciata.
Nel 1996, all’età di 30 anni, entravo per la terza volta in comunità. Ero lì da appena tre mesi, quando mio fratello moriva di Aids. Io l’ho saputo quando ormai era già nella bara, quando l’ho visto lì, ridotto a pelle e ossa. Ho avuto subito la sensazione che una parte di lui era già volata via, ma che tutto quello che era non poteva finire nel nulla e che adesso era libero e da qualche parte era felice. Dopo questi sentimenti è arrivata l’incazzatura che mi ha portata a scontrarmi un’altra volta con il non senso e con la morte. Per me la vita era fatta solo di disperazione, una disperazione che sarebbe finita solo con la morte. Ma qual era il senso di tutto questo?
In comunità avevano paura che me ne andassi, ma rimasi lì, persa nel mio oblio. Vedere mio fratello in quella bara scatenò dentro di me un’indegnità nei confronti della vita senza pari. Sarebbe stato meglio che fossi morta io, pensavo, lui era sposato e aveva una bambina di tre anni, io non avevo nulla per cui valesse la pena vivere. Facevo psicoanalisi da 8 anni, era un aiuto molto valido per me, mi ha aiutato a conoscere me stessa, i miei limiti, ma soprattutto a distinguere i miei sentimenti perché io confondevo tutto con la rabbia. Andavo tutte le settimane ma dopo la morte di mio fratello facevo le sedute in silenzio, mi sembrava di non aver niente da dire. Dopo un mese circa mi resi conto che ero caduta in preda alla bulimia, un rifiuto totale nei confronti della vita, mi faceva ribrezzo la carne che mi vedevo addosso e mi sentivo in colpa ogni volta che mangiavo qualcosa. Nel 1997, tornata a casa, dopo 6 mesi ero ancora al solito punto, disperata e sola. Provai a cercare altre soluzioni, ma quando riuscivo a non farmi ricominciavo con la bulimia e quando non ne potevo più della bulimia riprendevo a farmi. Ero stanca e pensavo che da quell’inferno non ne sarei più uscita.
Parlavo con Dio, pur non sapendo chi era e se esistesse, ma ogni volta che brancolavo nel buio, c’era qualcosa che mi spingeva a rivolgermi a Lui. Gli dicevo che avevo fallito, che non avevo saputo vivere la vita che mi aveva dato e che adesso volevo solo morire; mi sentivo così vile e piena di sensi di colpa nei confronti della vita. Così decisi di morire: andai al servizio tossicodipendenze dove mi riempirono di metadone, psicofarmaci e antidepressivi, mi sdraiai a letto; mi alzavo solo per andare a prendere il metadone, non cera più niente e nessuno che mi spostasse da quella posizione, dentro di me era tutto buio, aspettavo solo la morte.
Dopo due mesi accadde un fatto che risvegliò tutta la mia umanità: in un paese del Nord Italia, due fidanzatini avevano ucciso la mamma e il fratellino di lei. In comunità avevo condiviso per due anni la stanza con una ragazza che a 13 anni uccise un bimbo di 9 e spesso la vedevo star male perché riviveva quegli attimi con un dolore lacerante. Quando succedeva mi preoccupavo per quella ragazzina del nord e pensavo al dolore che avrebbe provato quando si sarebbe resa conto di quello che aveva fatto. Vedevo una certa somiglianza tra la mia vita, la sua e quella della mia compagna di stanza. A tutte e tre era sfuggito qualcosa dalle mani. Poi un giorno in un’intervista al papà chiesero se sarebbe mai riuscito a perdonare la figlia e lui rispose che l’aveva già fatto perché lei era tutto quello che gli restava. Che abbraccio. Ero sconvolta, stupita, sorpresa e commossa da questo papà, tutto in me si stava risvegliando.
Un mattino, mentre mi stavo alzando dal letto, ho sentito quel vuoto che mi ha accompagnato per tutta la vita riempirsi di un amore inspiegabile, dentro il quale ho riconosciuto Dio. Che dono la fede, nessuno mi aveva mai fatto un regalo di questa portata! La mia vita apparteneva a qualcun altro e io adesso lo sapevo, iniziavo a sentire la sua presenza nella mia vita, che sorpresa! Era lui quello che cercavo da sempre, finalmente il senso della vita si stava svelando al mio cuore. Ho riconosciuto subito Cristo nell’Eucarestia e nel sacramento della confessione e il senso di colpa che pesava come un macigno sul mio cuore si è trasformato in coscienza del peccato. Mi sentivo amata, liberata, guarita e salvata da colui che ha dato la vita per i miei peccati e nello stesso momento mi stava donando la certezza che mio fratello era salvo, perché Cristo ha vinto la morte con la resurrezione. Ne sono certa perché per grazia di Dio io sono risorta dalle mie macerie. Tutto quello che la psicoanalisi a un certo punto non riusciva più a darmi, perché ero come arrivata davanti a un muro con tutti i miei limiti, i miei fallimenti e tutta la mia rabbia, Cristo me lo stava donando attraverso il suo perdono, attraverso quel papà che perdonava la figlia nonostante il terribile omicidio.
Oggi sono passati 11 anni da quel giorno, sono sempre in cammino e in lotta con me stessa, ma con la certezza che Cristo si è fatto mio compagno di viaggio e che non mi lascerà mai sola. Mi ha scelta e per questo sono infinitamente grata.
Lettera firmata
Padre Aldo – Tempi
Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).
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