Ecco finalmente la notte. Dopo la vanagloria dei suoi fuochi, il sole si è disfatto in ceneri di corallo, e non è più che un’ombratura rosa sulla chiarità occidentale. Un altro giorno è morto, ma più il cielo si incupisce, più si rinfiora di brividi bianchi. Le stelle sono dappertutto: a file, a grappoli, a corone. Quanti tremori in quel deserto sfavillìo! A baleni d’attimo si spengono e si accendono come se una brezza siderale soffiasse nell ‘alto nerazzurro. Le costellazioni da millenni ci parlano con triangoli di topazi, con pentagrammi di zaffiri, coi solitari greggi delle faune gemmate.
Anche le stelle morte da millenni ci mandano il loro bianco sorriso dalle scintillanti geometrie, e nei seni più solitari le candide caligini delle nebulose, matrici dei soli, promettono le nascite che non vedremo.
Una pallida fiumana attraversa la nera vastità della notte e a tratti s’allarga come se volesse straripare e coprire tutto il cielo. Ogni goccia di questo fiume è un sole, e la corrente ha mille milioni di sfere ardenti, mille milioni di soli.
Uno dei più umili e smorti atomi del gurgite dilagante che inanella l’universo è il sole nostro: povera stilla sperduta, con la scorta dei suoi bui subalterni, in uno dei tanti golfi dell’interminato. “Il silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta” e Pascal, per non vederli, si chiuse il viso nelle mani, per chiamare in soccorso l’Iddio d’Abramo e di Giacobbe.
E io, fanciullo antichissimo, guardo il cielo e imprimo nel cuore la vertiginosa e divina lezione della notte. Tu guardi in alto soltanto, mio prossimo, per spiare se la nuvolaia accenna a burrasca, se la luna promette un indomani di sole, per seguire il percorso di una macchina volante. Ai tuoi occhi la terra è l’imperiale quadrivio del firmamento, il sole la sua privata focolaia, la luna il suo lampione notturno, le comete i razzi profetici della sua storia. Le stelle, troppo smorzate e distanti per servire l’uomo re, impuntiscono di tremuli arabeschi il baldacchino che ricopre i suoi sonni.
Ma invece di sdraiarti nell’anticipato cataletto per la finta morte serale, alza -dico a te!- gli occhi al cielo. Impara l’umiltà della notte. Vedi come è bella, vasta, palpitante, serena!
“O dormienti, cosa è il sonno?”. Ti è mai accaduto di passare la notte, per le vie di una città, con l’anima smaniosa di amore, presente a te stesso in una commossa lucidità? Per quelle strade appena schiarite da un pò di luna o di lumi, tramezzo a sbarramenti e obliquità d’ombre; per quelle strade lunghe, eterne, diritte, dove non incontri che gatti intenti a frugare nei mucchi della spazzatura, e non senti che il suono di una pendola che seguita a marcare, in quel vuoto silenzio, l’eguaglianza di tutte le ore? Tra quelle due file infinite di case alte, nere, mute, chiuse, murate, non hai provato pietà o disgusto a pensare a tutti quei corpi distesi là dentro, uno sull’
altro, uno accanto all’altro, di piano in piano, di camera in camera, come tanti morti in un camposanto a strati e colombari?
Migliaia di abbandonati, di immoti, di rinchiusi tra muraglie e finestre; migliaia e migliaia di corpi, che fiatano nel buio delle stanze e dell’incoscienza, supini come bestie stracche, accovacciati come bestie paurose, aggomitolati come bestie freddolose. Non hai provato come me, in quei tragitti di ardore vagabondo, un misto di ribrezzo e di malinconia? E non hai sentito una repentina voglia di gridare, di cantare a voce spiegata, di svegliare quei condannati a un sonno tanto più lungo?
Guarda piuttosto le stelle. Le stelle sono meravigliose.
Le stelle dicono, a chi sa leggere, una parola più giusta dei cattedranti e degli spacciatori di vanità. Il bruscolo di mota spenta sul quale premi i tuoi piedi non è che un granello stellare in un precipizio senza rive. Non ti gonfiare al soffio della superbia, non ti credere un dio padrone, un re terreste; confessa che non sei creatore, ma creatura.
Le nostre filosofie sono come l’erba dei tetti, che secca prima di avere fiorito, sentenze di cenere e ragioni di vento. Siamo soli sull’orlo dell’ infinito, perché rifiuteremo la mano di un Padre? Siamo sbattuti, noi effimeri, dall’alito dell’eternità: perché rifiuteremo un sostegno, sia pure a patto di esservi attaccati con i chiodi di una croce di campagna?
Giovanni Papini