L’8 marzo la Chiesa ricorda san Giovanni di Dio, fondatore di un ordine ospedaliero chiamato comunemente Fatebenefratelli. Giovanni nacque in Portogallo nel 1495. Dopo una vita avventurosa e piena di pericoli trascorsa nell’esercito, il suo desiderio di perfezione lo portò a donarsi totalmente al servizio dei malati. Il suo amore a Dio e al prossimo era così traboccante che lo rinchiusero in un manicomio, pensando fosse matto. Morì nel 1555 a Granada, dove aveva fondato il suo primo ospedale. Nella lettera che segue, san Giovanni di Dio manifesta la sua passione come un fuoco ardente, per Cristo e per i malati ai quali consacrò tutta la sua vita.
«Se guardassimo alla misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene tutte le volte che se ne offre la possibilità. Infatti quando, per amor di Dio, passiamo ai poveri ciò che egli stesso ha dato a noi, ci promette il centuplo nella beatitudine eterna. O felice guadagno, o beato acquisto! Chi non donerà a quest’ottimo mercante ciò che possiede, quando cura il nostro interesse e ci supplica a braccia aperte di convertirci a lui e di piangere i nostri peccati e di metterci al servizio della carità, prima verso di noi e poi verso il prossimo? Infatti come l’acqua estingue il fuoco, così la carità cancella il peccato. Vengono qui tanti poveri, che io molto spesso mi meraviglio in che modo possano esser mantenuti. Ma Gesù Cristo provvede a tutto e tutti sfama. Molti poveri vengono nella casa di Dio, perché la città di Granada è grande e freddissima, soprattutto ora che è inverno. Abitano ora in questa casa oltre centodieci persone: malati, sani, poveri, pellegrini. Dato che questa è la casa generale, accoglie malati di ogni genere e condizione: rattrappiti nelle membra, storpi, lebbrosi, muti, dementi, paralitici, tignosi, stremati dalla vecchiaia, molti fanciulli e inoltre innumerevoli pellegrini e viandanti, che giungono qui e trovano fuoco, acqua, sale e recipienti in cui cuocere i cibi. Non esistono stanziamenti pecuniari per tutti costoro, ma Cristo provvede. Perciò lavoro con denaro altrui e sono prigioniero per onore di Gesù Cristo. Sono così oppresso dai debiti, che spesso non oso uscire di casa a motivo dei creditori ai quali devo rispondere. D’altra parte vi sono tanti poveri fratelli, mio prossimo, provati oltre ogni possibilità umana, sia nell’anima sia nel corpo, che io sento grandissima amarezza di non poter soccorrere. Confido tuttavia in Cristo, che conosce il mio cuore. Perciò dico: maledetto l’uomo che confida negli uomini e non confida in Cristo. Volente o nolente, gli uomini ti lasceranno. Cristo invece è fedele e immutabile. Cristo veramente provvede a tutto. A lui rendiamo sempre grazie. Amen».
Sono rimasto molto impressionato dopo avere letto la vita di quest’uomo innamorato di Cristo e di conseguenza delle persone più disagiate della società. Ho trovato conforto vedendo che il suo amore a Cristo era tanto grande che neppure i debiti lo hanno mai spaventato. La certezza che la sua opera non era sua ma della Provvidenza era così radicale che non dubitò mai che quello che faceva aveva origine nel Mistero. E la storia gli ha dato ragione, malgrado avesse subìto migliaia di incomprensioni fino a conoscere la dura esperienza del manicomio. Tutto quello che è normale per le persone innamorate di Cristo, è “anormale” non solo per il mondo ma anche per “certi” uomini di Chiesa, certi pastori che non hanno saputo riconoscere nell’opera del santo l’azione di Dio.
La storia è piena di questi esempi. Ma nel tempo è sempre la verità a vincere. Certamente perché questa vittoria si realizzi, è necessario, come san Giovanni di Dio ci insegna, che il testimone debba essere completamente consacrato alla Provvidenza Divina. Eppure dentro questa posizione non viene risparmiata alla persona l’esperienza dell’angoscia o della tristezza. Ad esempio, san Giovanni di fronte a tanti poveri sofferenti non riusciva a dare a tutti almeno un piatto di minestra. Quanto più la vita coincide con Cristo, quanto più uno è afferrato da Cristo, tanto più ogni dolore che si scopre nell’altro diventa suo. È quello che sperimento qui ogni giorno, nel mio paese. Non appena esco da casa, trovo sempre qualcuno che “chiede”. E il numero cresce ogni giorno, al punto che è diventata un’abitudine per tanti, quando trovano un povero, dire: «Vai a San Rafael e chiedi di padre Aldo».
Molte volte davanti a questa “processione” provo un certo fastidio perché vedo la mia impotenza di fronte alle pretese che i poveri hanno. Ma subito mi viene alla mente il capitolo 25 di Matteo: «Avevo fame e sete…» e la mia posizione cambia. Diamo loro quello che abbiamo fino a esaurire le riserve di cibo. Allora qualcuno mi dice: «Padre, ci sono persone che ti imbrogliano». La mia risposta è molto semplice: «Che qualcuno mi inganni non mi preoccupa, mentre mi preoccuperei se io non rispondessi “sì” a Gesù che mi chiede. Ognuno dovrà rendere conto del proprio operato al Signore». Non ci sbagliamo mai quando il nostro sguardo è fisso in Gesù che si avvicina in quanti, perfino nei bugiardi, ci chiedono aiuto. Una delle battaglie più dure che ho avuto in ospedale è stata quella con un responsabile medico che imponeva, per il ricovero, il rispetto del protocollo del ministero. Cioè, se non era chiara la diagnosi di quello che un paziente aveva, non poteva essere accettato. Una posizione completamente contraria al carisma dell’ospedale, secondo il quale qualsiasi povero che troviamo per strada, senza se e senza ma, deve essere accolto, lavato, nutrito e provvisto di tutto quanto necessita; è Cristo e soltanto dopo si valutano i dettagli e, se le condizioni lo esigono, si trasporta all’ospedale più adeguato. È stata una lotta dura, fino al punto che ho dovuto indicare suor Sonia, e non i medici o gli assistenti sociali, come riferimento ultimo di decisione per l’ammissione della persone malata.
È avvenuto un cambiamento radicale con il ritorno al carisma per il quale Dio ha usato me e Paolino per la costruzione di queste opere, guidati dallo stesso criterio. Purtroppo la direttrice sanitaria ha dato le dimissioni e io le ho accettate nella certezza che la Provvidenza mi avrebbe inviato una persona con una posizione consona a questo carisma. Dopo alcuni giorni, il presidente della Fondazione, responsabile di tutte le opere, mi ha detto che la responsabile della pianificazione del ministero della Salute, il 31 gennaio sarebbe andata in pensione e che sarebbe stata felice di lavorare con noi. Una donna appassionata a Gesù che è stata anche ministro della Salute durante il governo di Cubas. Mi sono reso conto che ancora una volta la Provvidenza veniva in mio aiuto.
Da un mese è la nuova direttrice e la sua presenza sta suscitando un’impressione positiva in tutti. È bello vederla inginocchiarsi davanti al malato, del quale vuole conoscere tutto. E dei lavoratori vuole sapere quali sono le difficoltà. Per tutti è stato un regalo e una sorpresa, perché è difficile trovare medici così. Il povero, il malato, qualunque persona, non ha bisogno di parole, ma di un abbraccio. D’altronde la mia vita è cambiata per l’abbraccio del Servo di Dio Luigi Giussani. Ma questo abbraccio che è all’origine della resurrezione dell’io e di ogni opera, necessita che il mio sguardo non rimanga mai fisso sulle opere ma alla sua origine.
Guardare Cristo e prendere coscienza che io sono relazione col Mistero, è la grande sfida che san Giovanni di Dio mi lancia. Se dovesse mancare questa certezza, tutto finirebbe in niente. Il concreto nella vita non sono i poveri e le opere a beneficio loro, ma la coscienza che «Io sono Tu che mi fai». L’esperienza di questi anni mi indica che il problema non è l’opera o l’impegno politico, ma un io afferrato da Cristo a tal punto che si possa dire: «Per me, vivere è Cristo». Da questa pienezza di vita trabocca un flusso che feconda l’ambiente, suscitando risposte precise alle necessità che emergono nella vita. Solo stando davanti al Mistero è possibile stare davanti all’uomo. «Agere sequitur esse». Don Giussani diceva: «È, se opera».
Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).
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