Dopo il rimpatrio: quale sorte per le donne?

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Foto di M Harris da Pixabay

Nella nostra esperienza di Amici di Lazzaro, abbiamo sostenuto e incoraggiato decine di rimpatri assistiti in tutta Italia, e solo in un paio di casi abbiamo avuto esperienze negative. Negli altri casi donne ormai stremate sono risorte tornando dai propri cari e ritrovando abitudini, lingua, cultura e origini.
Riportiamo questa indagine sui rimpatri che permette comunque di vedere alcune difficolta’ dei rimpatri volontari assistiti, specialmente di quelli che sono assistiti e poco volontari….
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Tra il 15 febbraio e il 7 marzo 2018 sono state condotte 10 interviste a donne rimpatriate dall’Italia e dall’Europa, tutte inserite nei due progetti condotti dal Committee for the Support of the Dignity of Woman (COSUDOW), sia a Lagos che a Benin City. Si tratta nella maggior parte dei casi di donne ritornate tramite rimpatrio assistito, prevalentemente su invio dell’Associazione Slaves no more, con sede a Roma e presieduta dalla già citata Suor Eugenia Bonetti. In due casi invece le intervistate sono state rimpatriate in modo coatto, rispettivamente dal CPR di Ponte Galeria e da un Centro di trattenimento tedesco.

A differenza dei risultati abbastanza omogenei emersi dalle interviste delle donne che risiedono attualmente in Italia, le donne coinvolte nella ricerca in Nigeria presentano una maggiore difformità nelle risposte, soprattutto relativamente ai sentimenti, di soddisfazione o pentimento, provati da quando sono tornate nel proprio Paese. Nello specifico, cinque donne sono felici della loro scelta: nonostante le difficoltà del contesto, ritengono migliore la vita in Nigeria, perché è il “loro Paese” e perché si sono trovate in condizioni estremamente difficili tanto che la loro non può essere considerata una vera e propria scelta, ma una decisione obbligata dalle vicissitudini in Europa (in un caso la donna stava per vedersi sottratto il bambino dal Tribunale per i Minorenni, in un altro la donna era praticamente diventata una senza fissa dimora in Spagna). Anche le risposte relative all’amore provato per il proprio Paese non sembrano essere motivate dalla constatazione di un miglioramento della propria vita una volta ritornate, quanto più da un generale sentimento di attaccamento alla Nigeria, i cui codici interpretativi ovviamente sono di più facile fruizione per chi vi è nato e cresciuto.

Le quattro che invece non sono soddisfatte della loro vita in Nigeria e che vorrebbero tornare in Italia affermano di essersi pentite della scelta fatta (in un caso non si è trattato di una scelta, ma di un rimpatrio coatto). Anche quando si parla di volontarietà del rimpatrio occorre poi considerare che se questa è utilizzata come misura alternativa a quello forzato la scelta è quindi se essere rimpatriate con uno scivolo quantomeno economico o in maniera coatta.

La progettualità delle ragazze rimpatriate ha previsto per tutte un periodo di ospitalità presso il centro d’accoglienza e successivamente il supporto nell’affitto di una casa e nell’apertura di un negozio, a seconda delle competenze e dei desideri manifestati. Cinque di loro ancora hanno il negozio attivo mentre in due casi il negozio è fallito; in generale sembra difficile implementare il business e soprattutto stabilizzarlo, a causa delle difficoltà economiche del contesto nigeriano, e della debolezza della naira, la valuta locale.

Le difficoltà riscontrate in Nigeria sono più o meno simili a quelle già delineate dalle ragazze intervistate in Italia. La bellezza invece della Nigeria sta nella libertà per quattro ragazze intervistate: la libertà di muoversi senza che la polizia ti disturbi o ti chieda i documenti, di andare in giro e di lavorare, contrapposta a quello vissuto in Europa.

«La libertà. Perché puoi fare quello che vuoi, se vai in Germania, ti chiedono sempre il passaporto. Mi piace essere una persona libera, se avessi avuto il passaporto so che sarei stata libera pure là, ma non ce l’avevo».

T., 31 anni, tornata dalla Germania nel 2009

Il tema della costrizione alla prostituzione è presente trasversalmente in tutte le interviste effettuate, anche in quelle di donne tornate da molti anni in Nigeria, sia come esperienza dolorosa vissuta, contrapposta alle aspettative paradisiache sulla vita in Europa, sia come monito per le ragazze che stanno pensando di partire e che potrebbero cadere nelle mani di sfruttatori o sfruttatrici.

Che fine fanno invece le donne che, deportate, non vengono intercettate dal COSUDOW o dalle altre ONG attive nel contesto nigeriano? È molto difficile dirlo con certezza, poichè non ci sono dati ufficiali che possano spiegarlo. Secondo Isoke Aikpitanyi non solo sono respinte dalla famiglia, ma alcune spariscono, vengono uccise, o ri-trafficate:

Le ragazze rimpatriate non le difende mai nessuno, sono una vergogna da nascondere per tutti, per il Paese e per la famiglia. E i soldi che hanno mandato? Ah, dei soldi chi mai si ricorda […] Tutta l’economia della città si regge sui soldi che arrivano dall’Europa, […] le famiglie non chiedono mai niente finché tutto va bene; e quando poi le cose vanno male sono le prime a prendere le distanze. Vogliono solo che le ragazze rimpatriate se ne vadano in fretta e tolgano il disturbo […].

Ciò che si può affermare relativamente alle ragazze deportate dal CPR di Ponte Galeria, è che solo una donna, espulsa nel 2013, è stata poi intercettata dalle religiose del COSUDOW e inserita in un programma di reinserimento. Le difficoltà di incontrare e tutelare le donne “di ritorno” sono dovute in primo luogo all’essenza stessa delle deportazioni, che sono delle mere attività di polizia con l’unico scopo di rimpatriare forzatamente le persone straniere, senza alcuna preoccupazione per il loro destino una volta nel proprio Paese. Inoltre, il contesto stesso del CPR non è adatto a favorire una comunicazione non ambigua tra la persona trattenuta e le varie figure professionali che vi operano: le detenute, sul baratro del fallimento del loro progetto migratorio e in contesto ostile, non solo non hanno spazio fisico e mentale per poter progettare l’eventuale ritorno, perché qualcosa di totalmente imposto in cui non vi è nessuno spazio per una negoziazione, ma soffrono anche della confusione che può crearsi tra i vari ruoli. E il terrore per l’imminente deportazione è troppo presente perchè si possano fidare di qualcuno e credere in una soluzione possibile.

I tentativi di stabilire un ponte tra Italia e Nigeria relativamente ai rimpatri forzati non paiono pertanto raggiungere neanche un mero obiettivo di monitoraggio di quanto accade al ritorno nel proprio Paese, o un follow up attraverso cui poter comprendere quale sia la sorte di queste ultime. Se pensiamo che nel 2016 sono state deportate 198 persone nigeriane, e 246 nel primo semestre del 2017, possiamo sicuramente affermare che la grandissima maggioranza non viene intercettata da programmi di reinserimento e che le istituzioni italiane non sembrano essere interessate a quello che potrebbero subire le donne espulse, a rischio stigma dalla propria comunità, in quanto rimpatriate senza aver costruito nulla in Europa, o addirittura nuovamente trattate.

La situazione dal 2018 è cambiata radicalmente. L’editto dell’Oba che ha liberato dal timore del vodoo quasi tutte le nigeriane sfruttate ha scoperchiato anche l’ipocrisia che regnava soprattutto nell’Edo State, facendo tornare un po’ di sana riprovazione per i trafficanti e verso chi si arricchiva con la tratta e la prostituzione. I rimpatri sono orami a migliaia da tutta Europa e questo aiuta a smontare il mito del Paradiso Europa.
E’ quindi più realistico poter parlare con una nigeriana o nigeriano, di un ritorno al proprio paese se con un progetto interessante.

SE CONOSCI NIGERIANE/I (o anche di altre nazioni) INTERESSATA AD UN RIMPATRIO ASSISTITO, ed avere un sostegno economico per una iniziativa lavorativa o un progetto di vita importante (un negozio da aprire, cure mediche, un percorso universitario, un terreno o un tetto da sistemare, un sistema di pannelli solari da installare, ecc) contattateci!

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Sportello AntiTratta

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Chi impara a credere, impara a inginocchiarsi (Benedetto XVI)