Non difendiamo il Burqa e tradizioni arcaiche

Foto di zibik da Pixabay

Quando ci si espone contro il burqa ci sono partiti e associazioni che si lanciano in un’antidiluviana difesa del diritto di indossarlo, contro le pretese della cultura occidentale che, negando tale “diritto”, prevaricherebbe sulla dignità di una cultura diversa.
Il burqa è un caso limite di ogni abbigliamento-simbolo di una condizione di inferiorità in cui le donne versano in alcune culture e tradizioni.

Le ragioni” addotte a favore sono sempre le stesse: sono pratiche che fanno parte della “loro” cultura. Spesso sono accettate volontariamente dalle donne, talvolta addirittura richieste. Chi siamo noi per vietarle? Siamo in democrazia… Tra l’altro, si adotta la stessa giustificazione anche per le mutilazioni genitali femminili, la segregazione femminile in casa, i matrimoni combinati e l’ostracismo violento verso chi si converte ad un’altra religione o veste o vive all’occidentale

La democrazia riconosce i diritti degli individui, non delle “culture”. Queste ultime dovrebbero essere accettate nelle loro parti positive o neutre e cambiate quando ostacolano l’integrazione o comportano oppressioni e violenza.

È vero che una persona può indossare il velo e diventare come Benazir Bhutto, ma può anche essere musulmana come Rania di Giordania. Tuttavia, in molti paesi musulmani, il velo è vietato in molte circostanze per emancipare le donne dal dominio assoluto di padri, fratelli e mariti.

La maggior parte delle donne, salvo poche eccezioni, subisce l’imposizione del velo. Anche se non è imposto con la forza, viene inculcato sin dall’infanzia sotto la pressione della comunità, della famiglia, degli amici e del web, che fanno continuamente battute se una donna decide di non portarlo o di toglierlo.

Il velo potrebbe essere considerato solo un simbolo, ma i simboli sono utilizzati dalla politica e hanno un impatto sulla vita collettiva e individuale.

Sappiamo dai dati dei Centri Antiviolenza e dai numeri verdi che ogni giorno un incredibile numero di violenze viene commesso da padri, fratelli e mariti contro le donne che desiderano vivere in modo “islamicamente scorretto”. Questi casi diventano visibili solo quando le violenze sfociano in omicidi o attacchi con l’acido (come accade nel Regno Unito). Troppo spesso rimaniamo in silenzio, diventando talvolta anche corresponsabili di tali atrocità.

Nel confronto tra un padre-padrone e una figlia costretta alla “sua” cultura, talvolta anche l’oppressore è una persona che subisce pressioni e vive fragilità culturali e sociali ma non possiamo giustificare l’oppressione di qualcuno più debole da parte di un oppressore che, a sua volta, è sfruttato ed emarginato.

È necessaria una politica di integrazione, non una politica di multiculturalismo. Dobbiamo sostenere i diritti materiali degli immigrati, garantendo loro contratti regolari, alloggi, assistenza sanitaria, eccetera, ma allo stesso tempo dobbiamo opporci alla loro ghettizzazione e alla loro autoghettizzazione. A volte è la società a non integrarli, a volte sono loro stessi a non desiderare l’integrazione.

I tratti oppressivi di qualsiasi cultura devono essere combattuti senza distinzione di religione o credo. Non è accettabile che un padre o marito pretenda di controllare le decisioni della moglie o della figlia, che si tratti di una famiglia cristiana, islamica o senza fede. Ancora oggi, troppi matrimoni vengono “combinati”, imponendo le scelte delle persone coinvolte. Numerose prediche degli imam giustificano comportamenti oppressivi di padri e mariti, ignorando i principi di eguaglianza e libertà sanciti nella nostra Costituzione. È imperativo opporsi a queste pratiche, affermando i valori fondamentali di uguaglianza e libertà che dovrebbero essere garantiti a tutti, indipendentemente dalla loro cultura o credo religioso.

In ogni caso il divieto di burqa aiuta le donne. Non le opprime ma le libera.

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