La disforia e la transizione di genere di mia figlia.

Foto di Ryan McGuire da Pixabay

Testimonianza di una mamma al Convegno sul tema Il rischio educativo nel linguaggio dei media e la transizione di genere:

Buonasera. Grazie per l’invito, grazie per averci dato voce.

Come sapete essere qui oggi non è stato facile. Cambiamenti nei titoli del programma, sale negate, minacce di manifestazioni, insomma tutto quell’assurdo clima da caccia alle streghe che sembra dominare qualsiasi tentativo di affrontare il discorso sul gender. Basterebbe questo a far riflettere: i toni e i modi sono talmente esacerbati che l’obiettivo non è più quello di arrivare ad un dibattito, ma di NON arrivarci. Ci si concentra su come tacitare la controparte, invece che su quello che avrebbe da dire. Il discorso così non è più incentrato sui temi reali – le tutele per i minori, gli approcci migliori, i rischi delle terapie ormonali e quelli dell’approccio affermativo – ma su come NON affrontarli. La nostra associazione si propone innanzi tutto di contribuire a ristabilire un dibattito in cui tutti tornino ad avere la possibilità di esprimersi.

Siamo un gruppo di genitori che si sono incontrati online su social stranieri. Eravamo soli e disperati. Cercavamo qualcuno che come noi sentisse che qualcosa stonava e qui in Italia non c’era nulla. Ci siamo trovate tra febbraio e maggio e potete immaginare il senso di sollievo provato quando ci siamo confrontate e non ci siamo sentite più sole. Abbiamo aperto delle pagine sui principali social network attraverso cui ci proponiamo di informare e creare anche un luogo sicuro e un punto di riferimento per altri genitori come noi che vogliono capire e trovare risposte ai tanti dubbi che ti assalgono quando tuo figlio ti comunica un disagio rispetto alla sua identità, visto che in Italia così come in tanti altri paesi il dibattito è incanalato in una narrazione a senso unico che non lascia spazio a chi si chiede perché sempre più giovani afflitti da disagi tipici dell’adolescenza o di natura psicologica o anche influenzati dall’ambiente in cui vivono o dai social network chiedono di cambiare genere.

Per arricchire il dibattito sono qui oggi a raccontarvi la mia storia, che è simile, troppo simile, a quella di tante altre madri, che fanno parte della nostra associazione.

Mia figlia è stata sin da piccola quella che ora si definirebbe una bambina non conforme, ai miei tempi si sarebbe definita un maschiaccio. Proprio come ero io da bambina. Mai una gonna, mai un fiocchetto, mai un vestitino, mai uno sport femminile, mai un colore rosa. Non per questo aveva mai messo in discussione il suo essere femmina, non aveva mai rifiutato il suo corpo.

L’adolescenza non è stata facile, ma quando mai lo è? La ricerca di un gruppo di appartenenza, il bullismo delle amiche non sempre disponibili ad accettare la diversità, anche solo quella di preferire la lettura di un libro a una serata in discoteca, le domande sulla sua sessualità. Lei intanto azzardava una gonna, i primi trucchi, i buchi alle orecchie… Insomma, una ragazza che faceva i suoi primi tentativi per trovare una definizione…

Poi è arrivata la pandemia e come tanti adolescenti lei ha trascorso ore e ore chiusa in camera davanti al computer, a chattare o a videochiamarsi con amici conosciuti su Instagram, amici che in seguito scoprirò essere confusi come lei e alcuni già sulla via della transizione medica.

Purtroppo, alla fine del primo lockdown ci trasferiamo in un’altra città. Ovviamente lasciare gli amici ed entrare in una classe nuova non è stato facile ma lì trova l’amore. E’ una ragazza, ama una ragazza e io sono felicissima perché finalmente sperimenta l’amore.

Poi inizia il secondo lockdown.

Di nuovo isolamento, solitudine, di nuovo ore trascorse al computer, l’amore appena trovato che finisce.

La psicoterapia non sembra risolvere nulla, lei sta male, ha crisi di pianto, disturbi alimentari, autolesionismo, alla fine mi chiede di accompagnarla in Ospedale e viene ricoverata in psichiatria per ideazione suicidaria.

Esce dall’ospedale dopo dieci giorni con diagnosi di Depressione Maggiore con spunti psicotici, imbottita di antidepressivi, antipsicotici e ansiolitici e inizia la lenta metamorfosi.

Quasi una checklist.

Taglio di capelli (fatto)

Abiti larghi maschili (fatto)

Binder comprato di nascosto (fatto)

Mutande da uomo (fatto)

Videochiamata serale con amici online che approvano e celebrano ogni passo (fatto)

Insomma, sei mesi durante i quali io assistevo al cambiamento e aspettavo la dichiarazione che puntuale arriva a fine anno scolastico: mi sento uomo, chiamatemi con il nome che ho scelto (rigorosamente anglofono!) e usate i pronomi maschili.

Un pugno allo stomaco.

Però io non posso dire che non me l’aspettassi e anzi mi ero preparata. La figlia di una cara amica, amica di mia figlia sin da piccola, stava iniziando la transizione. Ed io erano mesi che cercavo informazioni online e mi ero convinta che la depressione derivasse dal suo essere nata nel corpo sbagliato!

Oggi fatico a credere di essere arrivata a quel punto, ma non c’era una narrativa diversa: se tua figlia o tuo figlio ti dicono che sono nati nel corpo sbagliato c’è un’unica risposta: la transizione.

E allora contatto i due più grandi e attivi gruppi di genitori italiani che completano l’opera di convincimento: è bello che tua figlia abbia scoperto il vero sé, è bello che si voglia autodeterminare e voi siete genitori meravigliosi che la amano e vogliono accompagnarla in questo percorso.

Eppure, io avevo tanti dubbi, era tutto troppo improvviso. E poi perché di colpo così tanti bambini e soprattutto adolescenti pronti a dichiararsi trans? Ma loro avevano una spiegazione e una risposta ad ogni domanda, è il frutto di una società finalmente libera e accogliente. E poi c’è sempre il subdolo e minaccioso sottotesto: preferisci UN FIGLIO vivo o una figlia morta? Perché è questo che ti viene detto: che se non accetti la nuova identità di tuo figlio, lui finirà per uccidersi. Il tasso di rischio sarebbe altissimo.

E allora mia figlia diventa MIO FIGLIO e ogni volta che devo chiamarla o riferirmi a lei il cervello va in corto circuito e lo stomaco si stringe un pochino di più.

Una di queste associazioni mi consiglia uno psicologo specializzato in disforia di genere.

Dopo appena due mesi e una decina di incontri, la metà online, lo psicologo arriva a dire che si, ci sono dei problemi psicologici sottostanti dovuti a traumi non elaborati, ma che evidentemente non avevano la priorità rispetto alla transizione, perché LEI decisamente RAGIONA DA UOMO (!) Così MIO FIGLIO viene spinto a fare la transizione sociale, a presentarsi col nome maschile ovunque, a comprare abiti e biancheria nel reparto maschile, ad usare i bagni pubblici degli uomini, a comprare schiuma e lametta per farsi la barba! La motivazione? Se non prova come fa a sapere se è davvero questo quello che vuole?

Non posso fare a meno di notare che è una cosa singolare da dire ad una ragazza che ha traumi da elaborare ed è in un periodo psicologico difficile. Come fa una persona così confusa e fragile a sapere davvero cosa vuole? Lei vuole stare bene! Farebbe qualunque cosa pur di stare bene! E le hanno detto che questa cosa la farà stare bene! SÌ, perché ovviamente online, la sua fonte di informazioni quotidiane, ti raccontano quanto sia bello ed eccitante fare la transizione, prendere ormoni e affrontare mastectomie bilaterali.

Intanto MIO FIGLIO ha ancora la depressione, intanto MIO FIGLIO ancora si taglia. In più adesso MIO FIGLIO si disegna barba e baffi finti, MIO FIGLIO indossa il binder anche la notte. E MIO FIGLIO non sta meglio!

Anche lo psicologo è preoccupato e siccome lei/lui deve partire per l’università – perché intanto è diventata maggiorenne – decide di accelerare i tempi e ci manda da un endocrinologo privato con cui collabora, per la prescrizione di un medicinale che blocchi il ciclo, un farmaco che solitamente viene prescritto per trattare i tumori o la pubertà precoce. Terapia da fare per poi iniziare eventualmente il Testosterone dopo 3/4 mesi. E io sono pronta a sostenerla anche in questo, ma a questo punto è lei a dire No.

Dice che vuole fare direttamente il Testosterone e che si farà seguire nella città dove sta per trasferirsi. Parte per l’università e da settembre a dicembre sta sempre peggio. Nonostante la transizione sociale, nonostante i farmaci, nonostante stesse facendo quello che voleva, continuava ad avere depressione e autolesionismo. A quel punto non posso più ignorare i miei dubbi e inizio a cercare informazioni online su un diverso modo di affrontare il problema. In Italia non trovo nulla, all’estero un gruppo americano grazie al quale inizio a raccogliere informazioni diverse dalla narrativa affermante.

Quando torna per le Vacanze di Natale è in una condizione fisica e psicologica pietosa.

Nel preciso istante in cui l’ho vista ho deciso: BASTA!

Le dico che abbiamo seguito la sua strada e non ci ha portato da nessuna parte, adesso è il momento di provarne una nuova.

Basta con il nome di elezione e i pronomi maschili, abbiamo rifatto un passaggio graduale al suo nome e ai pronomi femminili. Abbiamo trovato uno psicologo convinto della necessità di lavorare PRIMA sui suoi traumi, sulla sua ansia, sulla sua depressione, sulla sua mancanza di autostima e POI sulla transizione qualora la disforia di genere fosse persistita.

A oggi i risultati sono molto incoraggianti.

Non assume più farmaci, non si taglia più, ha elaborato i suoi traumi, ha lavorato sulla sua autostima, sta costruendo la sua personalità.

È a suo agio nel suo corpo e nel suo genere, si declina di nuovo al femminile e non ha più fastidio nell’usare il suo nome. Indossa nuovamente biancheria e abiti acquistati nei reparti femminili, questa estate è persino andate al mare e ha fatto il bagno.

Sta frequentando l’università vicino casa e sta costruendo una rete di amicizie che la rendono felice.

Sui social però resta il nome anglofono con tutta una schiera di pronomi femminili, maschili e neutri. Forse fare una detransizione sociale è troppo difficile? Forse teme di essere giudicata male dagli amici online? Non lo so.

Pochi giorni fa ho riletto la relazione con cui lo psicologo esperto in disforia di genere sosteneva la necessità della transizione e mi chiedo di quanti altri ragazzi si stia occupando in questo momento. Mi chiedo quanti genitori non hanno avuto la forza di dire no, assumendosi anche il rischio di dire: mia figlia non si suiciderà perché sa che noi la amiamo.

Se mia figlia avesse iniziato il percorso di transizione, adesso il testosterone le avrebbe già cambiato in modo irreversibile la sua voce, e già solo quello sarebbe stato un cambiamento irreversibile, non oso pensare alla mastectomia bilaterale.

Tante ragazze e tanti ragazzi che invece hanno intrapreso questa strada in giovane età ora sono pentiti e non possono tornare indietro. Si chiamano DETRANSITIONERS. I loro video si moltiplicano in rete. Le loro storie sono documenti e diventano documentari. Questi ragazzi sono disperati per una scelta fatta troppo in fretta e troppo presto e adesso nessuno vuole ascoltarli.

Noi in Italia abbiamo un grande vantaggio in questo momento: all’estero possiamo vedere il nostro futuro, con paesi che stanno riconsiderando i protocolli affermanti, le cliniche che vengono chiuse per ridistribuire sul territorio i pazienti con regole più stringenti.

Dobbiamo darci la possibilità di riflettere e per farlo abbiamo bisogno di un vero dibattito in cui tutte le parti vengono considerate. Aiutateci a fare in modo che sia così.

Tutto questo ci deve insegnare qualcosa!

La mia storia ci deve insegnare qualcosa!

Trascritto da Lucia Comelli dal convegno sul tema Il rischio educativo nel linguaggio dei media e la transizione di genere. Sito di Sabino Paciolla

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