Solo chi è amato può amare anche il dolore dei vecchi

Caro padre, terminate le scuole superiori dovevo scegliere una professione, ma tra le tante idee confuse niente mi soddisfaceva, nulla mi convinceva. Volevo studiare qualcosa di più grande, che mi portasse ad una maggior conoscenza, un corso di studi che non fosse superficiale, vuoto, ma che assorbisse tutto il mio tempo, tutte le mie energie e che mi facesse sentire bene. Per questo motivo ho scelto medicina e adesso mi sono resa conto che ero io ad essere vuota! Ero determinata da quello che gli altri dicevano dovessi essere. Ora non so chi ascoltare, chi mi educa. Ogni giorno è una lotta enorme. Un medico con molta esperienza ci ha detto che non dobbiamo lasciarci coinvolgere sentimentalmente con il paziente, ma il giorno d’inizio della mia professione, dopo aver fatto il giuramento di Ippocrate, il sacerdote presente ha detto che ciascuno deve trattare i malati come se fossero parte della sua famiglia. Come si può vivere così? Come sopportare la sofferenza del paziente, quella dei suoi familiari, immaginando che al loro posto potrebbero esserci mia madre o mio padre?
Con tutta la mia miseria mi sono rivolta a te padre Aldo e quel giorno mi hai mostrato la clinica di malati terminali. Chi ero io perché tu ti disturbassi così per me? Con tanto affetto mi mostravi la bella opera costruita e io tremavo nel vedere ciò che avevo davanti, tutto era impeccabile, ordinato, bello, qualcosa che non esiste in questo paese. Siamo entrati in una stanza e c’erano tre bambini che sembravano tre angeli caduti dal cielo, che stavano riposando nei loro letti, ascoltando una bella melodia, tu ti sei avvicinato ad uno di loro, ti ho seguito, e lo hai accarezzato dolcemente. In quell’istante ho sentito qualcosa di totalmente nuovo in me, per la prima volta nella mia vita, ho pianto vedendo un bimbo malato! Cosa mi stava succedendo? Io in università avevo visto tanti malati ed ero sempre stata negli ospedali, come era possibile che quel giorno mi commuovessi per questo essere? Ero stata talmente disumana in tutti questi anni, alienata dal dolore umano che incontravo, provavo disgusto di me stessa, orrore rispetto a quello che ero, a quello in cui mi ero trasformata. Come posso essere diventata un medico e non provare amore verso l’umanità? Come posso esistere se non so amare?
Maria

«Come posso esistere se non so amare?». «Come posso sopportare la grande sofferenza di un paziente e quella dei suoi familiari, immaginando che potrebbero essere mia madre o mio padre?». Il pomeriggio in cui ho ricevuto la tua mail ero nella Clinica san Riccardo Pampuri, quella che ti ha tanto impressionata e commossa. Al mio fianco c’era Peter, un giovane di 19 anni, malato di cancro terminale. Quando avevo appena concluso la processione del Santissimo e l’Adorazione, una malata si è avvicinata e mi ha detto: «Padre, per piacere stia vicino a Peter perché in un momento di disperazione ha provato a tagliarsi le vene e sta piangendo». Sono andato a trovarlo. Cosa potevo fare in quel momento? Sentivo tutta la mia impotenza davanti a tanto dolore. Peter, di 19 anni, un ragazzo alto, bello, all’alba della vita, praticamente solo nel mondo e con un dolore inspiegabile mi ha detto: «Padre, sono stanco di vivere. Padre, che senso ha la mia vita?». Al nostro fianco c’era César, di 15 anni, con un braccio amputato, che ci ha guardato in silenzio con gli occhi pieni di tristezza. Anche la sua è una storia drammatica, colma di solitudine e di dolore. Entrambi vivono lo stesso dramma, con la differenza che César ha dovuto vivere l’angoscia, la rabbia, il rifiuto della vita, appena scoperta la sua malattia, mentre Peter è stato assalito da tutto questo ora, dopo che sono trascorsi molti mesi da quando si è ammalato.

Come stare vicino a chi soffre?
Sono momenti difficili per tutti e solo se uno è stato guardato ed abbracciato prima, stando di fianco a una persona che soffre, in particolare un bambino o un giovane, può essere per lui un motivo di speranza, di certezza che tutto è per un destino buono. Questo porta il malato a poter dire come Andrea: «Padre, io sono benedetta». Andrea è una ragazza di 17 anni, malata di cancro, ricoverata nella stanza accanto a Peter e César. Ogni volta che mi avvicino a lei e le chiedo: «Come stai?». Mi risponde: «Padre, benedetta». Il fatto che quando sei arrivata in clinica tu sia rimasta colpita dall’umanità carica di amore che hai trovato come risposta, a differenza di tutte le altre cliniche nelle quali sei stata durante i tuoi praticantati, non dipende da una capacità particolare di quelli che lavorano qui, ma dal fatto che una persona che Dio ha usato per edificare questa opera, sia stata un giorno abbracciata da un altro e continui ad esserlo in ogni minuto attraverso i volti, i cui tratti sono l’evidenza del Mistero, della “grande Presenza” come Giussani, l’uomo che mi ha abbracciato nella mia disperazione, definiva il Mistero. Di fronte a Peter l’unica cosa che posso fare è offrirgli lo stesso abbraccio, la stessa tenerezza, la stessa commozione di cui sono stato fatto oggetto dal fondatore di Comunione e Liberazione. Uno sguardo ed un abbraccio che mi ha fatto sperimentare il modo con il quale Gesù guardava ed abbracciava quanti si avvicinavano a Lui offrendogli i loro drammi, dolori, malattie. In questi giorni i Vangeli della Messa giornaliera parlano continuamente dello sguardo, dell’attenzione con cui Gesù si relazionava con gli ammalati ed è una commozione immedesimarsi con gli occhi teneri, amorosi, pieni di compassione di quell’uomo. Tutti noi uomini, come me, come te, come Peter, come César, Andrea, abbiamo bisogno solamente di questo sguardo, di trovare qualcuno che ci guardi, ci abbracci nello stesso modo. Soltanto chi sperimenta nella propria carne l’abbraccio del Mistero può abbracciare e sentire come parte di sé qualsiasi essere umano incontri. Solo chi è amato ama. E questo tipo di persone le incontriamo non solo nella Clinica San Riccardo Pampuri ad Asunción, ma in tutto il mondo, come testimonia questa lettera di Claudia, un’universitaria italiana. Non dimentichiamoci di quello che affermava Cesare Pavese: «Qualsiasi forma di violenza nasce dalla mancanza di tenerezza».
paldo.trento@gmail.com

Carissimo padre Aldo, che liberazione, recitando i Vesperi, leggere che la Carità non avrà mai fine, che quell’esperienza che vivo andando a trovare gli anziani della casa di riposo è eterna, non per la carità che posso dare io a loro, ma piuttosto perché quel dono totale di Sé che il Signore mi fa, facendomi incontrare il loro volto, è per sempre. Guardare quegli uomini e quelle donne, semplicemente guardarli così sofferenti, resi così simili a Lui, mi compie. Sarebbe ripugnante la sofferenza di per sé, se non fosse esplicito rimando alla croce, partecipazione al disegno di Dio. È duro il dolore, ma di fronte al dolore tutto ciò che è superfluo si sgretola, per lasciare spazio solo all’essenziale: il nudo bisogno di Lui. Per questo non posso non vivere un’ardente attesa, ogni giovedì, nell’andare a trovarli, come è accaduto oggi. Ma quel bisogno così totale che mi ritrovo addosso non è solo il mio, è anche il loro. Quelle persone ammalate, inferme anche mentalmente, che non distinguono i nomi, che non ricordano chi sono, o non hanno memoria di ciò che è successo durante il giorno o nella vita, una sola cosa distinguono con nettezza: il bene. Si accorgono di essere trattati come i vecchi a cui dar da mangiare, i “pesi” che non sai come trattare quando non li puoi identificare con l’azione che svolgi per loro. Se non è l’ora del bagno, l’ora della cena, l’ora delle cure, diventano, agli occhi di chi lavora lì, insopportabili. Durante quelle ore del pomeriggio, infatti, vengono accompagnati in un salone comune e abbandonati a se stessi. Sono proprio quelle le ore in cui io vado in quel posto con i miei amici.

E per questo ti dicevo che si accorgono del bene, perché, bisognosi di tutto, pur nell’incapacità di intendere e di volere, distinguono perfettamente uno sguardo di amore. Ma prima ancora, si accorgono di essere guardati. Spesso, neanche la gente sana se ne accorge o, comunque, ci mette più tempo. Loro, invece, ti fissano mentre li guardi, bramano la verità. Oggi, per esempio, una signora intrattabile, gravemente ammalata, che passa tutta la giornata a gridare aiuto e a chiamare la mamma, come in una lamentela continua, quando mi sono avvicinata e le ho preso le mani, si è improvvisamente calmata. Cosa posso aver mai fatto? L’ho solo guardata negli occhi lasciandomi raggiungere dall’urlo di quel bisogno così puro e totale, nel quale riconoscevo l’invito del Mistero. Non sono capace di descriverti con quale intensità siamo state l’una di fronte all’altra, ma posso dirti che questo è l’anticipo della vita eterna. In quel momento era troppo evidente la coincidenza che c’è tra segno e Mistero: Cristo che si annunciava al mio cuore nel volto di quei poveri, persone spogliate di tutto ciò che è vano, private della propria autonomia, dipendenti in ogni gesto da altri, affamate di vita; Cristo che mi chiedeva di amarle per Lui e con Lui. Come due settimane fa, quando ho scoperto cosa diciamo veramente quando recitiamo l’orazione del giovedì: «Cristo, che ci hai chiamati amici, il Tuo giogo è dolce e il Tuo carico è leggero». Una donna, abbandonata in un angolo, puzzava tremendamente, aveva bisogno che le cambiassero il pannolone e la lavassero. Ho chiamato gli operatori, non avevano voglia di farlo perché lei si dimena sempre, mi sono offerta di aiutarli, e per la prima volta hanno accettato. Non ho fatto nulla, le ho accarezzato le mani mentre la pulivano e mi sono accorta che quel semplice gesto era per la gloria di Dio: un gesto del tutto insignificante dal punto di vista materiale, ma che è stato possibile esclusivamente perché in quell’istante Cristo si faceva prossimo in quella necessità umanissima, e chiedeva di me, chiedeva che Lo riconoscessi. Così mi sono resa conto che la grandezza non stava tanto nell’azione da compiere, cioè non era commisurabile alla portata del gesto, poiché si trattava di un particolare davvero misero. La grandezza era tutta in una domanda di Gesù a me: «Mi vuoi così? Adesso?», e nel riconoscimento che accoglierLo dove e come Lui vuole è l’unica cosa che mi rende felice, perché è l’unica che corrisponde sino in fondo alla mia natura; al punto che Quel giogo, Quel carico diventano l’uno dolce e l’altro leggero, poiché occasione di essere unita a Lui. E anche le persone che lavorano lì e trattano così male quei vecchi, inizi a guardarle non per quel che fanno, ma con tenerezza e discrezione, perché Sue anch’esse. Cos’è la corrispondenza se non questo essere tirata dentro Colui che è la Vita? Cos’è, se non partecipare di quel Suo sguardo così umano e così divino? Io scopro a ogni passo che la mia consistenza è in questo possesso di Cristo – del Suo possesso di me –, nell’essere sempre più potentemente afferrata e trasformata, tanto da poterGli offrire ciò che è già Suo. Questo fatto, impossibile a me, ma che urge costantemente il mio sì, basta a rendermi “capace” di guardare la realtà intera, anche quella brutta e dolorosa, nella sua vera consistenza: Lui; e, per questo soltanto, di iniziare ad amarla nella sua interezza.
Claudia

Aldo Trento – Tempi

Articolo tratto da www.tempi.it per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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