Sud Sudan. Facciamo nuove scuole per fare una nuova societa’

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immagine ADL

Vi riproponiamo questa lettera di Jim Comino (un coadiutore salesiano, laico consacrato) che sostenemmo anni fa in Sud Sudan con due progetti:
“Adotta una zappa” per permettere a tante donne e giovani di iniziare a coltivare dei terreni e autosostentarsi.
“Tutti a scuola” per sostenere la scuola di migliaia di bambini (l’obiettivo e’ 50.000 bambini)

Vorremmo riprendere a sostenere dei missionari in Sud Sudan anche nel 2023 se avremo i fondi (nel 2022 non abbiamo ancora avuto donazioni con causale Sud Sudan)
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Juba, agosto 2016

«Il cessate il fuoco raggiunto lunedì sera non crea molte illusioni. E per quanto raggiunto sotto l’egida del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, appare sin da ora fragile, strappato all’ultimo minuto. Nel Sud Sudan il fuoco cova ancora sotto la cenere.

Era l’8 gennaio 2011, quando sulla riva del Nilo, a Juba, si svolgeva l’ultima grande manifestazione per lo storico referendum che avrebbe sancito la secessione del Sud Sudan dal resto del Paese. In mezzo alle migliaia di manifesti inneggianti libertà e indipendenza, il malconcio cartone retto da un bambino di 10 anni riportava un messaggio emblematico: «We want our oil back» (Vogliamo indietro il nostro petrolio). Era un’accusa senza mezzi termini al regime di Khartum. Proprietario della sola rete di oleodotti, per anni il Governo del Nord aveva fatto il bello e il cattivo tempo, a volte imponendo balzelli spropositati sull’export di greggio, altre volte, nei periodi di maggiore tensione, addirittura chiudendo gli oleodotti.

Da quel divorzio, più o meno consensuale, nacquero due nuove entità: il Sudan del Sud (già semi-autonomo), grande quasi tre volte l’Italia, in parte coperto di vegetazione e ricco di petrolio, ma senza sbocchi al mare. E il Sudan del Nord, desertico ma con una lunga costa, un grande porto e, appunto, proprietario dell’unico oleodotto del Paese. Sei mesi dopo, il 9 luglio del 2011, con la dichiarazione di indipendenza prendeva così vita il 193° Stato membro delle Nazioni Unite e il 54° dell’Africa. Un Paese di otto milioni di abitanti, a maggioranza cristiana e animista con capitale Juba. Il sogno era prossimo a divenire realtà: sfruttare le grandi risorse energetiche e uscire così da uno stato di miseria cronico che relegava il Sud Sudan da decenni al fondo della classifica dei luoghi più poveri del mondo.

Troppe volte in Africa il petrolio è stato fonte di conflitto. Quando, nel 2005, i governanti di Nord e Sud decisero di sedersi a un tavolo per porre fine a una guerra durata 22 anni e costata la vita a due milioni di persone, in gran parte civili, la ragione principe era proprio permettere di far decollare la produzione e l’export di greggio. E spartirsi così la ricca torta energetica. Per non scontentare nessuno, il Comprehensive peace agreement (Cpa) prevedeva la ripartizione delle risorse energetiche; 50% a ciascuno dei belligeranti. Poco contava se l’80% dei giacimenti si trovava, e si trova, a Sud. L’importante era evitare la guerra e far cassa. E soprattutto non deludere le compagnie energetiche cinesi che arrivavano in massa. Cosi nel 2010 ecco che la produzione balza a mezzo milione di barili al giorno.

Oggi la storia rischia di ripetersi. I gravissimi scontri tra due storici e acerrimi rivali, avvenuti negli scorsi giorni nella capitale Juba (300 morti in soli 4 giorni tra cui un casco blu cinese), non fanno presagire nulla di buono. Si cerca dunque di far sopravvivere l’ennesimo cessate il fuoco, spinto dalle Nazioni Unite, sulla cui durata nessuno è tuttavia pronto a scommettere.

La storia si ripete perché i protagonisti sono gli stessi. Il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. Forti delle loro agguerrite armate, i duellanti del Sud Sudan stanno consumando la vita, e quella del loro Paese, nel farsi guerra, ad ogni occasione utile.

Dinka, Shilluk, Nuer, Acholi, i Lotuhu, sono solo alcune delle 60 tribù che vivono in un Paese dove le relazioni sociali, e l’economia, si misurano a seconda dell’appartenenza al clan, e della grandezza delle mandrie. In alcune zone remote non esiste la moneta. La vacca è la moneta di scambio, con cui si acquistano terreni, si regolano le compravendite, si creano i matrimoni e si risarciscono i danni. Sembrava che lo Stato più giovane del mondo si fosse lasciato alle spalle i momenti peggiori e si avviasse verso una transizione democratica capace di far ripartire l’industria petrolifera. Perché, dopo un contenzioso con il Sudan del Nord, che aveva bloccato gli oleodotti, Juba era riuscita nel 2013 a riprendere finalmente l’export di petrolio, unica risorsa del Paese più petrol-dipendente al mondo (dal greggio il Governo ricava il 99% delle vendite all’estero e il 98% delle entrate governativa). Il riavvio dei flussi fece balzare il PIL nel 2013 del 30 per cento.

Se le cose fossero andate di questo passo … Ma ecco che alla fine del 2013 i duellanti riaccendono le tensioni, in verità mai sopite. In dicembre le forze leali al presidente Salva Kiir, di etnia Dinka (quella maggioritaria), si scontrano con quelle fedeli all’ex vicepresidente Riech Machar di etnia Nuer. Esonerato in luglio dal Governo a causa dei forti contrasti con Kiir, il vicepresidente fu accusato di voler rovesciare il suo rivale con un colpo di stato. Il Sud Sudan sprofonda cosi in una nuova guerra fratricida, tra diverse etnie.

Il mondo quasi non se ne accorge. I riflettori dei media sono puntati sul Nord Africa e sul Medio Oriente, dove le primavere arabe si sono trasformate in inverni di sangue. La guerra civile in Siria, la Libia che comincia a sprofondare, la sollevazione dei fratelli musulmani in Egitto, l’ascesa dei salafiti in Tunisia. Tutto ciò mette nell’ombra un conflitto che in pochi mesi uccide almeno 50mila persone e provoca due milioni e mezzo di sfollati.

Il Paese sembra precipitare nel baratro. Dopo undici armistizi falliti, Kiir e l’ex capo dei ribelli Machar, quasi costretti dai vicini Paesi africani, firmano un nuovo accordo di pace nello scorso agosto, spianano la strada per la formazione del governo di transizione di unità con lo scopo di mettere fine a due anni di lotte civile. Nuova tregua e, come secondo copione, nuove violenze. L’accordo piace poco a Kiir, che si lamenta di essere svantaggiato per la corsa alle presidenziali del 2018.

Kiir e Machar imbracciano nuovamente le armi. Spalleggiati da alcuni Paesi. Machar sembra avere la meglio. Ma la violenza si arresta. Temporaneamente. Perché i duellanti non sembrano avere ancora intenzione a deporre le armi una volta per tutte. Con buona pace della produzione petrolifera, ormai ridotta di un quarto rispetto ai tempi in cui i sudanesi si erano illusi che anche in questa terra i sogni potevano divenire realtà.

Prova del fatto che il Sud Sudan si trova in un’alternanza continua tra conflitto e finta pace, è ciò che ho vissuto in prima persona il 10 luglio scorso.

Alla mattina presto, mentre stavo accompagnando un confratello Sacerdote Vietnamita a celebrare la Santa Messa fuori dalla città di Juba, abbiamo avuto parecchie difficoltà a superare il primo posto di blocco gestito dalla polizia del Presidente.

Al secondo posto di blocco, gestito dai militari, abbiamo ricevuto chiare minacce: se avessimo proseguito ci avrebbero sparato!

Tornando indietro verso la nostra missione in Juba abbiamo iniziato a sentire spari ed esplosioni in distanza e più ci avvicinavamo alla missione, più aumentavano le colonne di persone in fuga.

Dopo pranzo abbiamo iniziato ad assistere alla processione di persone che si recava da noi per cercare rifugio dalle sparatorie. Molti altri avevano già trovato riparo nella Cattedrale di Juba o in altre chiese. Entro sera siamo giunti ad accogliere oltre 8.000 persone, in gran parte mamme con bambini, “stipandoli” nella chiesa, nelle aule, nei cortili e in ogni altro luogo disponibile.
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Mentre i rumori del conflitto non hanno mai cessato di accompagnare questa processione di profughi, come una vera e propria colonna sonora, nella missione abbiamo utilizzato tutte le scorte di gallette multivitaminiche e di aiuti alimentari inviateci in precedenza dalle Nazioni Unite.

Davanti a gente terrorizzata, stanca per aver percorso 15/20 km a piedi, bagnata dalla pioggia e affamata non potevamo rimanere immobili!

Alle due di notte sono arrivate le ultime famiglie Nuer e, a causa della giornata intensa e faticosa, li abbiamo sistemati accanto a famiglie Dinka. Non sono passati più di 20 minuti e già era scoppiata una lite furibonda: ciascuna etnia accusava l’altra di avere iniziato il conflitto e di essere la causa di tutti i problemi della Nazione!

Per evitare il peggio siamo stati costretti a dividerli e a trasferirli in un’altra zona della struttura in cui c’erano solo famiglie e gruppi Nuer! Entrambe le etnie sono cristiane, vivono la condizione di profughi, sono in estrema povertà e sono vittime, eppure non riescono a perdonarsi e continuano da anni a farsi la guerra! Tutto il conflitto, che ha causato e causa migliaia di vittime, è basato su questa rivalità tribale mai assopita! Perché? Per raggiungere il potere!

Dinka e Nuer sono riusciti a fare fronte comune solo quando hanno dovuto lottare contro il Sudan del Nord mussulmano, grazie al leader carismatico, il colonnello John Garang che ha guidato il Sud all’indipendenza.

Dopo la guerra Garang non è diventato presidente perché è “scomparso” in un incidente aereo, del quale il Presidente Kiir (Dinka) accusa il Vicepresidente Machar (Nuer) di essere il mandante e viceversa. Intanto la guerra e i morti continuano!

Dopo lo scontro del 10 luglio, il vice presidente è fuggito in Uganda e il presidente ha nominato un nuovo vice di etnia Nuer, ma a lui fedele.

In questi giorni i morti sono molti da ambedue le parti. Nel frattempo il Sudan del Nord, attraverso il proprio presidente, dichiara ufficialmente che al Sud non saranno mai capaci di governare, ma tramite canali non ufficiali sostiene economicamente e militarmente il presidente Kiir.

Dall’altra parte, l’Uganda e gli USA sostengono, in modo non ufficiale e diretto, il vice presidente Machar.

Se tutto questo non fosse già sufficiente a determinare una situazione esplosiva, non va sottovalutata la presenza cinese nel paese: gli imprenditori del sol levante comprano petrolio sud sudanese e fanno affari, soprattutto nel settore edile ed infrastrutturale, pagando il governo in armi.

Viviamo cercando di accompagnare e proteggere i più piccoli e i più deboli in questa precarietà continua, senza mai sapere da dove e quando arriverà l’attacco!

Nei giorni scorsi, nella zona di Maridi, le suore salesiane indiane che gestiscono il dispensario, costruito grazie al contributo del Progetto Adozioni di don Artuto Lorini, hanno dovuto far fronte alle esigenze dei feriti degli scontri a fuoco e, senza competenze, provvedere ad estrarre pallottole, improvvisandosi chirurghi!

Questi scontri locali sono legati al fatto che il governo è da mesi che non paga né la polizia, né l’esercito e molti militari, per fame, cercano cibo attaccando i depositi delle Nazioni Unite, delle ONG straniere e le missioni dei religiosi cattolici!

Le ambasciate straniere si sono svuotate, lasciando solo il personale strettamente necessario.

Anche l’Arcivescovo ha suggerito ai religiosi di lasciare temporaneamente il Paese, soprattutto le religiose, già vittime di violenze, stupri e omicidi!

Noi Salesiani non abbiamo avuto vittime e attacchi diretti, ma tutt’attorno alla missione di Juba la guerra e le razzie sono quotidiane!

Forse la scelta fatta in questi anni, anche attraverso il Progetto “100 scuole per il Sud Sudan”, ha testimoniato a tutta la popolazione la neutralità dei Salesiani e il fatto di avere a cuore il futuro di tutto il Paese.

Don Vincenzo Donati, salesiano di 89 anni, dopo aver creato il Progetto “Darfur” per i profughi del conflitto tra Nord e Sud e dopo aver fondato le opere del Sud Sudan, vedendo quei pochi bambini che potevano accedere ad una qualsiasi forma di insegnamento, costretti a fare scuola all’aperto sotto una pianta, ha pensato al Progetto “100 scuole per il Sud Sudan”.
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In quasi dieci anni di progetto, realizzato anche grazie al contributo dei benefattori legati al Progetto Adozioni di don Arturo Lorini, siamo riusciti a consegnare circa 70 scuole ai vescovi locali, permettendo a circa 14.000 bambini e ragazzi di studiare!

In un Paese dove circa il 60% della popolazione giovanile non riceve nessuna forma di scolarizzazione ed istruzione, non si tratta di un traguardo da poco, ma il governo non si è mai espresso né a favore, né contro, rimanendo totalmente indifferente all’iniziativa!

 Nei giorni prima della mia partenza per l’Italia, dove mi trovo per qualche giorno, dei circa 8.000 profughi arrivati nella nostra missione salesiana il 10 luglio scorso ne sono rimasti circa 3.000, ospitati in una tendopoli appena fuori la missione, realizzata anche grazie agli aiuti delle Nazioni Unite e del Giappone.

Sono veramente sacrosante le parole di Papa Francesco: “LA GUERRA È UNA FOLLIA, È IL SUCIDIO DELL’UMANITÀ. Perché uccide il cuore e uccide l’amore!”.

Di questi profughi, circa 1.700 bambini e ragazzi vengono a scuola da noi!

Grazie al contributo dei tanti benefattori come voi, ogni giorno diamo loro tre pani e una scodelle di fagioli bolliti nell’olio, così ogni giorno si rinnova il “miracolo delle moltiplicazione dei pani e dei fagioli”. Provvediamo anche l’uniforme per la scuola e i quaderni.

Il nostro GRAZIE si fa preghiera per ciascuno di voi, con fraterno affetto: “Cristo Risorto sarà la nostra ricompensa!”.

Jim Comino, SDB
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