Elisa: sposa bambina, migrante e vittima di tratta

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Foto di Pexels da Pixabay

Io mi chiamo Elisa e vengo da Benin City, ma sono cresciuta nel Delta State con la mia famiglia. Sono nata nel 1992. Il capo villaggio aveva regalato un pezzo di terra a mio padre dove aveva costruito la nostra casa. Mio padre, quando ho compiuto 14 anni, mi ha dato in sposa al capo villaggio che all’epoca aveva 59 anni, 5 mogli e molti figli. Io sono diventata la sua sesta moglie. Ho vissuto per quasi 1 anno con mio marito. Non avrei voluto sposare quell’uomo molto più grande di me, ma mio padre mi aveva costretta a farlo perché diversamente avrebbe perso la sua terra e la casa. Agli inizi  ho avuto un figlio con mio marito e la situazione è diventata sempre più difficile. Sono fuggita dalla casa coniugale dopo pochi mesi ma mio padre non mi ha più accolta in casa sua perché temeva la reazione di mio marito. Ho vissuto per un periodo a casa di mia zia a Benin City e lei si è presa cura del mio bambino.

Mio marito dopo la mia fuga ha mandato dei sicari per uccidere mio padre e a bruciare la casa in cui avevo vissuto con la mia famiglia. Per fortuna non ci riuscì. A Benin City ho incontrato il mio attuale compagno di nome Bobby, con cui ho deciso di venire in Italia. In città abbiamo incontrato un suo amico che viveva in Libia proponendoci – sentiti i nostri guai – di scappare ed andare con lui. Siamo partiti in direzione della Libia. Il viaggio è stato faticoso: in parte fatto con una jeep ed in parte a piedi. A febbraio siamo riusciti ad ottenere la residenza a Tripoli e un posto di lavoro in un autolavaggio. Io facevo le pulizie nelle abitazioni private. La Libia non ci piaceva. A marzo abbiamo conosciuto un ragazzo nigeriano che ci ha detto di avere una sorella in Italia che avrebbe potuto aiutarmi a trovare un lavoro. Ci mettemmo d’accordo per la partenza in cambio di 45.000 euro per il viaggio e per la ricerca di un lavoro.

Questo ragazzo mi ha chiesto di dargli alcune cose di me (peli pubici, capelli, uno slip e delle foto) perché le avrebbe mandate in Nigeria per “santificarle” con i riti woodoo da un suo conoscente e poi le avrebbero riportate indietro prima della partenza. Così fu fatto. In verità devo dire che dopo mi sentivo meglio, mi sentivo come protetta dagli spiriti buoni degli emigranti. Nel giugno sono partita da Tripoli su un’imbarcazione di due egiziani che trasportava circa sessanta persone. Abbiamo trascorso in mare 7 giorni prima di raggiungere Lampedusa dove siamo stati intercettati dalla Polizia italiana. I due egiziani ci ripetevano sempre di non fare nessun nome. Una volta sbarcati la Polizia ci ha trasportati in un Centro di accoglienza a Crotone. Io ho telefonato da una cabina telefonica pubblica alla donna nigeriana che mi ha detto che mi avrebbe incontrato a Napoli, alla Stazione Centrale.
Ma da Crotone la Polizia mi ha portato al Centro di Bari-Palese 64, e dopo una settimana mi hanno lasciata andare mettendomi in contatto con una associazione di volontariato locale per poter avere un alloggio. A Bari non conoscevo nessuno, e di quella donna nessuna traccia. Mediante dei ragazzi senegalesi ho conosciuto una donna nigeriana che secondo loro avrebbe forse potuto aiutarmi. Sono andata a trovarla più volte e alla fine – pensando di farmi un favore – mi ha proposto di guadagnare dei soldi prostituendomi. Lei mi avrebbe fornito i profilattici, le creme e i trucchi e mi avrebbe indicato il luogo esatto dove lavorare in cambio
di una parte dei guadagni.

Mi ha detto anche – sapendo che ero incinta – che agli uomini le donne in gravidanza piacciono di più e quindi avrei avuto molti clienti. Non accettai di prostituirmi. Ma questa donna era entrata in contatto con la mia madame e quindi questa con le minacce mi ha costretta a stare sulla strada. La mia esperienza sulla strada è durata poche settimane. Sono fuggita e sono andata a trovare di nuovo ragazzi senegalesi. Questi hanno continuato ad aiutarmi mettendomi in contatto con degli operatori di un Centro di accoglienza di Bari. Accettai il loro aiuto ai primi di settembre, anche perché ero incinta e aspettavo il bambino (che poi è nato a ottobre). L’esperienza sulla strada è durata circa tre settimane.

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